Vietnam: tra dighe e sfruttamento del suolo, la guerra non è ancora finita
Quando si parla di inquinamento in Asia, si fa solitamente riferimento alla Cina, alle grandi città piene zeppe di motorini fumosi, alle fabbriche che producono ininterrottamente jeans, giocattoli, elettronica.
In Vietnam è un po’ diverso, invece. Oltre a tutto questo, percepibile in forma minore rispetto ai colossi vicini di casa, c’è anche un triste problema, ereditato da un passato neanche troppo lontano.
Il Paese conta circa 331.688 kmq di territorio, di cui l’80% è costituito da colline e montagne, mentre il restante 20% è costituito da pianure, coltivate soprattutto all’altezza del delta del Fiume Rosso a nord e del delta del Mekong a sud. Girare in bus o treno nell’interno del paese significa essere inghiottiti da una vegetazione forte, lussureggiante, rigogliosa e almeno apparentemente sana.
Un territorio che sta riprendendo vita dopo un vero e proprio ecocidio: gli attacchi americani durante la guerra del Vietnam tra il 1962 e il 1971 hanno fatto registrare i danni più gravi mai arrecati all’ecosistema di una nazione; le forze armate hanno riversato più di 70 milioni di litri di erbicida sul 16% del Vietnam del Sud (colpendo anche Laos e Cambogia) allo scopo di distruggere la natura che dava riparo, protezione e sostentamento ai nemici vietcong. Un obiettivo perseguito con determinazione, perché oltre agli agenti chimici (Arancio, Bianco o Blu a seconda del colore riportato sui fusti), l’esercito americano ha messo in campo anche giganteschi bulldozer – chiamati “gli Aratri di Roma” – per fare a pezzi facilmente sia la vegetazione che lo strato superiore del terreno della giungla. Il napalm ha incenerito intere foreste, elefanti compresi, e in montagna sono state provocate frane bombardando o riversando acidi sui rilievi.
Alla fine del conflitto aree intere erano infestate da erbe che i locali chiamavano “erba americana”: il governo ha calcolato che sono stati distrutti 20mila kmq di foreste e terreni agricoli; per non parlare delle conseguenze che queste armi chimiche hanno avuto sulla salute della popolazione, con un numero ingiustificato (e ingiustificabile) di aborti, malformazioni e malattie (cancro negli adulti e leucemie nei bambini), che si sono manifestate nel periodo immediatamente successivo al conflitto.
Forse non riuscirà a far dimenticare tanta violenza neanche il progetto di decontaminazione per eliminare l’Agente Arancio che gli Stati Uniti hanno avviato nella zona di Danang, nel centro del Vietnam, prima iniziativa di questo genere dalla fine della guerra. L’azione legale promossa dalle vittime locali contro i fabbricanti statunitensi della sostanza chimica è stata invece respinta dalla magistratura americana e – anche per questo, verosimilmente – Washington si è sentita in dovere di stanziare 41 milioni di dollari per la decontaminazione, condotta da due aziende statunitensi in cooperazione con il Ministero della Difesa vietnamita. Le porzioni di suolo contaminate saranno scavate e scaldate ad elevata temperatura per distruggere le diossine che vi sono contenute.
A vederla adesso questa natura – da “fuori” - non si immaginerebbe tanta devastazione. Ma se lei ha trovato la forma e la forza di rinvigorirsi, ci pensano ora gli stessi vietnamiti a farle guerra, insieme ai governi cinese e thailandese, che da lontano trasformano, distruggono e modificano.
Ancora lontani dal collasso ambientale, il territorio e la fauna del Vietnam si stanno tuttavia impoverendo a causa dell’eccessivo sfruttamento del suolo e delle pratiche agricole, che privilegiano il disboscamento o l’incendio del terreno, e la caccia illegale. A questo si aggiunge l’inquinamento che sta causando cambiamenti a livello di ecosistema.
Nel tentativo di evitare una catastrofe ecologica e idrogeologica, il governo, oltre ad aver promosso campagne di sensibilizzazione e educazione, e a sostenere la diffusione di pannelli fotovoltaici, ha deciso di proteggere decine di migliaia di chilometri quadrati di foresta e di creare 87 aree protette all’interno del territorio nazionale, tra parchi e riserve naturali. Un impegno piuttosto irrilevante, purtroppo, rispetto alla voracità e allo sviluppo incontrollato delle potenze dell’”Indocina”, che soprattutto intorno al Mekong si raccolgono e investono.
Sono dodici i nuovi progetti di dighe idroelettriche pianificate lungo il basso Mekong; quattro sono quelle già realizzate in Cina nella provincia dello Yunnan, parte di un progetto che ne prevede, sempre in Cina, altre quattro. E sono diversi i cantieri già partiti, nonostante il dibattito aperto e l’opposizione di molti gruppi della valle, soprattutto vietnamiti.
Il dilemma è sempre lo stesso: costruirle significa produrre energia (e venderla) e questo vuol dire avere nuovi introiti da destinare alla crescita del paese. Però i danni ambientali che ne potrebbero derivare sono giganteschi. Nel bacino del basso Mekong vivono circa 60 milioni di persone la cui vita è legata al fiume, che fornisce l’80% delle proteine necessarie alla popolazione. Dal delta, infatti, arriva il 50% dei prodotti di mare del paese e il 30% di quelli agricoli, inclusi i 20 milioni di tonnellate di riso che rendono il Vietnam uno dei maggiori esportatori al mondo. Il progetto della diga di Son La, nel Nord Ovest del Vietnam, ha già provocato il trasferimento forzato di centomila persone appartenenti a gruppi etnici minori, e la diga Xayaburi nella provincia laotiana settentrionale (il cantiere di 810 m di invaso è stato inaugurato lo scorso dicembre per mano di una società thailandese che investirà 3,5 miliardi di dollari circa e acquisterà il 95% dell’energia prodotta) abbatterebbe di migliaia di tonnellate il pescato annuale con gravi conseguenze per tutte le popolazioni che lungo il fiume vivono di pesca.
A causa di questi progetti e del loro impatto ambientale, il Vietnam è segnalato dalla Banca Mondiale come il secondo paese al mondo (il primo sono le Bahamas) per vulnerabilità rispetto all’innalzamento delle acque. Il direttore generale dell’Istituto di Meteorologia, Idrologia e Ambiente ha spiegato che, se ci fosse un innalzamento di un metro, il 40% del Delta sarebbe sommerso, inclusi gli allevamenti intensivi di gamberi che lungo la costa hanno sostituito le risaie distruggendo le foreste di mangrovie e lasciando la zona scoperta all’erosione dell’Oceano.
La questione è complessa e lo scorso novembre ne hanno discusso ad Hanoi, per due giorni, duecento esperti tra policy makers, rappresentanti delle imprese, delle Ong e soprattutto del mondo accademico, che hanno partecipato al Second Mekong Forum on Water, Food and Energy, da cui è emersa la necessità di dar vita a “una piattaforma regionale per affrontare una sfida comune carica di potenzialità e di rischi”.
Alfonsa Sabatino