Viaggio in “Cattive acque”, tra i veleni della valle del Sacco
Il fiume Sacco scorre nel frusinate ed è uno dei corsi d’acqua più inquinati d’Italia. Un tempo nel fiume si faceva il bagno, e dalle decine di ruscelli che graffiano la valle si poteva bere acqua fresca con le mani. Ora no. Ora ci sono le fabbriche, e quei grossi tubi neri che riversano liquami acidi e schiumosi. Il paesaggio adesso è segnato da lunghe colate di cemento, distese di capannoni e discariche di rifiuti interrati. E la gente, da queste parti, si ammala troppo spesso. E muore. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente”, pubblichiamo oggi il prologo del libro “Cattive acque. Storie della Valle del Sacco”, del giornalista e filmaker Carlo Ruggiero, da poco pubblicato dalla casa editrice Round Robin. Il volume racconta la storia di una terra violentata e abbandonata, dopo esser stata adescata con un sogno effimero di ricchezza. È la storia di chi ci è nato, ci è cresciuto e ora ci sta morendo. Ma anche di chi, nonostante tutto, combatte ogni giorno per trovare una via di uscita.
“Ho visto il demone della violenza e il demone dell’avidità e il demone del desiderio ardente; ma, per tutte le stelle!, quelli erano demoni forti, gagliardi, con gli occhi infuocati, che dominavano e guidavano gli uomini – uomini, vi dico. Ma sul pendio di quella collina intuii che nel sole accecante di questo Paese avrei conosciuto il demone flaccido, pretenzioso e miope di una follia rapace e spietata”.
Joseph Conrad, Cuore di Tenebra
L’acqua scorre veloce in questo punto. S’increspa, schiuma, scroscia. E da quassù sembra quasi limpida. Ci sono due cascate, una laterale, l’altra a piombo sul corso del fiume. Su una sponda, di fianco alla prima cascata, hanno costruito un edificio di cemento grezzo col tetto spiovente. È una specie di mulino, serve a produrre energia elettrica. È nuovo, ancora da finire, e cozza un po’ con le vecchie pietre del ponte, che invece sono tutte annerite dalla pioggia. A dire il vero, non c’entra niente neanche con quella torre di pietra viva che si alza di fianco e buca la nebbia fitta. La torre della Mola, è così che si chiama, un vecchio fabbricato con tanto di merli in cima e feritoie lungo le pareti. Il mulino, però, s’intona perfettamente con il cavalcavia in cemento armato della Tav, che sovrasta il tutto. L’hanno finito nel 2005, quando è stata finalmente inaugurata la tratta Roma-Napoli. La torre, invece, sta qui da più di ottocento anni, così come il ponte. Ora è circondata da recinzioni arancioni da cantiere e da enormi blocchi di cemento impilati in attesa di essere messi in opera. Qualche anno fa l’hanno pure ristrutturata ed è diventata un museo delle bande musicali, con tanto di targa d’ottone lucidata di fresco a testimoniarlo.
Il sindaco di Sgurgola, grande appassionato di musica bandistica e, a quanto dice, intimo amico di Silvio Berlusconi, l’ha voluto a tutti i costi. Ora pensa addirittura di costruire una piazzola di atterraggio per gli elicotteri in un campo qui vicino. Magari in attesa che il suo illustre amico faccia un salto a trovarlo. È un progetto piuttosto ambizioso, non c’è che dire, ma che rischia di fare la stessa fine del piccolo parco giochi che sta a ridosso della ferrovia. L’ha costruito Trenitalia prima di chiudere definitivamente il cantiere. Doveva essere un regalo alla cittadinanza, ma alla gente del posto non deve essere piaciuto un granché. Al momento c’è solo un’altalena gialla su cui probabilmente nessun bambino ha mai poggiato il sedere. Anche perché a pochi metri dalla giostra comincia a puzzare la carogna di un cane nero. Dev’essere morta da qualche giorno, quella povera bestia, ed è già in avanzato stato di decomposizione.
No, non ci si sente a proprio agio qui. E non è solo per colpa della nebbia, del freddo che intirizzisce le ossa o di quel cane morto. È un malessere che nasce dalla sensazione di trovarsi in una specie di non luogo. Stare su questo ponte, in effetti, è un’esperienza piuttosto straniante. È come se per qualche bizzarro fenomeno fisico, proprio qui, in questo punto preciso, due epoche diverse coabitassero nello stesso istante. Da un parte c’è un passato lontano: il ponte, la torre e l’acqua delle cascate. Dall’altra, c’è una modernità canaglia, quella del cavalcavia, della centrale elettrica del parchetto disabitato. In giro, poi, non c’è nessuno. Solo silenzio e nebbia. E quel cane morto. Tutto è immobile, tranne l’acqua che continua a scrosciare e un frecciarossa che fischia veloce, di tanto in tanto.
Se t’affacci dal ponte scopri anche quello che un buon osservatore potrebbe considerare un dettaglio importante, forse l’anello mancante che riesce a tenere insieme questi due mondi lontani. Dal terreno, proprio sul fiume, tra gli arbusti rinsecchiti e un po’ spettrali, sbuca un grosso tubo nero, dal quale esce a getto continuo un liquido verde acido e schiumoso. Quella melma si spande nell’acqua, lenta e inesorabile. E dev’essere pure calda, perché a contatto con l’aria gelida del mattino libera un refolo di fumo denso, che dopo un po’ si perde nella nebbia. Siamo in piena Ciociaria, a qualche decina di chilometri da Roma, verso sud. Siamo sul fiume Sacco, uno dei corsi d’acqua più inquinati d’Italia. Una sponda appartiene al territorio di Anagni, la città dei papi, l’altra a quello di Sgurgola, un paesotto molto più piccolo e ben meno famoso. In mezzo c’è questo ponte, c’è il museo, e c’è il mulino nuovo di zecca.
Un tempo questo era un paradiso terrestre, almeno così dicono i più anziani. Nel Sacco ci facevano il bagno, e dalle decine di ruscelli che graffiano la valle si poteva bere acqua fresca con le mani. Ora no. Ora c’è quel tubo, che arriva da uno degli stabilimenti industriali che nel frattempo sono spuntati a decine nei dintorni. Sono tanti, e a dire il vero non stanno solo qui. L’esperienza straniante che si vive in questo punto del fiume, infatti, non è poi così straordinaria. Perché la puoi avvertire in tutta la valle, quell’ampia striscia di terra che da Colleferro si spinge verso sud per circa ottanta chilometri, ben dentro la provincia di Frosinone. Di tubi come questo, lungo il Sacco, ce ne sono a decine, e il paesaggio è segnato da lunghe colate di cemento e distese di capannoni di lamiera. Per oltre cinquant’anni, da queste parti, si è pensato solo a produrre. Il fiume era una vacca da mungere, una ricchezza da spremere fino al midollo. L’industrializzazione, in queste terre, è arrivata così, con un piglio folle e spietato. S’è presa la valle a forza di zampate di cemento e di lamiera, e s’è riversata nel Sacco come quel liquido verde e cocente. La modernità ha violentato questa valle per decenni, dopo averla adescata con un sogno di ricchezza duratura. Poi però l’ha abbandonata al suo destino e ai suoi incubi. Proprio come avrebbe fatto uno stupratore, un bruto non certo guidato da un demone forte, gagliardo, con gli occhi infuocati. A dominare gli uomini, qui, è arrivato un demone flaccido, pretenzioso e miope.
Carlo Ruggiero*
*Giornalista e filmaker, è nato nel 1977 a Frosinone. Autore di numerosi servizi e docufilm sul mondo del lavoro. Scrive e filma per Rassegna.it dove si occupa anche di diritti, ambiente e immigrazione. Nel 2012 ha pubblicato il reportage
narrativo “Una pietra sul passato”, edizioni Ediesse.