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“Uomini e piante”: in un libro le storie di 32 “biofili”

maggio 28, 2013 Racconti d'Ambiente, Rubriche

Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto di una delle interviste raccolte nel libro “Uomini e piante. Le passioni dei collezionisti del verde” di Lucilla Zanazzi, appena pubblicato da Derive Approdi. Il volume dà voce ad alcuni dei maggiori conoscitori di verde del nostro Paese, spesso persone ignote al grande pubblico ma di fama internazionale nel loro piccolo ma grande ambiente. Una lunga galleria di personaggi che hanno collocato l’amore per il mondo vegetale al centro della propria vita, e del proprio piacere. Che nel coltivare le proprie piante e la propria passione, sono diventati dei veri sapienti. Di seguito la prima parte del colloquio tra l’autrice e Mirella Presot Collavini, collezionista ed esperta di violette.

Mirella? È il genius loci del Veneto. È «la signora delle violette», ma non solo, conosce una quantità incredibile di piante, sa dove trovarle, e ognuna di queste piante nelle sue mani diventa preziosa, anche la vecchia aspidistra, anche l’erba miseria. Potete rivolgervi a uno qualsiasi dei tanti appassionati del Triveneto e chiedergli dove ha trovato quella piantina così bella e rara e avrete una buona possibilità di sentirvi rispondere: «Questa? Me l’ha portata la Mirella».

Conosco Mirella da anni, ma non ero mai stata a casa sua. Vedendo l’amore che porta per i fiori un po’ retrò,  immaginavo la sua casa piena di mobili antichi, magari un po’ buia, insomma una di quelle ville di campagna fine Ottocento con i sofà, i piatti appesi al muro, i ritratti dei nonni e i pizzi. Niente di più sbagliato. La casa di Mirella è un loft ricavato dai vecchi magazzini dei vini Collavini. Le stanze sono enormi, le finestre sono grandi vetrate, i divani bianchi, i quadri al muro astratti, qualche bel mobile d’epoca. Nello studio, la libreria potrebbe far venire lacrime di commozione agli occhi di un vero bibliofilo. Ha un giardino ormai famoso e la sua serra è tutta bianca con tavolini e sedie di ferro battuto, appesi alle pareti ci sono vecchi attrezzi da giardinaggio e sopra il camino troneggia un ritratto di Linneo trovato in un mercatino in Olanda, credo. Serra bellissima. È una collezionista di piante, ma non pensate di vederle tutte in fila, qui niente è in fila, le piante sono ovunque, graziosamente sistemate nel luogo che più le valorizza. Ecco, c’è armonia.

Sono nata a Porcìa, vicino a Pordenone, in una famiglia un po’ stravagante che vanta prozii e zii cercatori d’oro nel Transvaal. Anche mio padre era stato giù, ma poi aveva preferito tornare, così io mi sono ritrovata in una casa dove tutto era impregnato del fascino misterioso e avventuriero dell’Africa. Eravamo sei figli, quattro maschi e due femmine, mia sorella però ha otto anni più di me e dunque io sono cresciuta tra i maschi, come un vero maschiaccio. Mio padre aveva una grande passione per le rose e si dava un gran daffare a innestarle. Ricordo che lo accompagnavo nella brughiera di Aviano a cercare le rose selvatiche da usare come porta innesto. Le piantava nel nostro orto tutte in fila e, quando era il momento giusto, andavamo nello splendido roseto dei Conti Porcia a fare talee. Per lui esistevano le rose, il vigneto, il frutteto e niente altro, così si lagnava spesso di mia madre che, diceva, con le sue ortensie e le sue begoniette, creava solo disordine. Abitava con noi anche la prozia Anna che coltivava nei vasi l’erba cannella e l’erba rosa e aveva una vera passione per quelle violette doppie, dette di Udine. Seminava l’insalatina il 28 febbraio, giorno di Santa Apollonia, della quale era molto devota perché, oltre a patrocinare le semine, preservava anche dal mal di denti. Attorno all’insalatina metteva le violette, così la santa avrebbe tutelato l’una e le altre.

Allora, più che tuo padre, è stata lei a influenzarti.

Credo proprio di sì. Viveva la natura in modo quasi pagano e per lei ogni pianta era legata a una precisa simbologia. Da lei ho ereditato questo interesse per le storie dei santi e le leggende legate ai fiori e per tutta la vita ho raccolto santini, stendardi, oggetti, libri e racconti che poi mi hanno permesso di allestire la mostra Le violette di Attis a Palazzo Altemps a Roma nel 1999 e I fiori dei Santi nella Chiesa dei Pagani nel 2000 ad Aquileia.

Erano mostre molto belle. Io ho visto l’allestimento che hai fatto nel cortile di Palazzo Altemps, dove è esposta la mirabile testa di marmo di Attis. Avevi creato un parterre all’italiana, formato da quattro labirinti di violette che rappresentavano l’amore impossibile, l’amore segreto, l’amor puro e l’amore contrastato. Al centro avevi sistemato il tronco di un pino ornato di ghirlande, proprio come quello che gli antichi romani portavano in processione per la città durante le Idi di marzo.

Mio padre, al ritorno dall’Africa, aveva acquistato una conceria e programmato il futuro lavorativo di tutti noi figli in quella che era diventata l’azienda di famiglia. I maschi furono spediti all’estero per seguire dei corsi di chimica o di conduzione aziendale. Io, come femmina, fui condannata ai lavori di segreteria e così, finite le scuole medie, mi iscrissero a ragioneria, ma a me la ragioneria non piaceva, in più odiavo la matematica. Ero proprio disperata. Ma quella estate arrivò ospite a casa nostra lo zio Marco, che non avevo mai visto prima. Lui era un personaggio mitico per noi ragazzi, perché era il vero uomo d’avventura. Quando era giovane aveva trovato una miniera d’oro nel Transvaal, l’aveva poi venduta e si era trasferito in Congo, dove aveva avviato uno stabilimento per la fabbricazione di laterizi e aveva sposato una giovane donna belga. Gli chiesi subito di portarmi in Africa. Lui disse che sarebbe stato ben felice, così avrei potuto tenere compagnia alla moglie incinta. Papà acconsentì e, nel giro di 15 giorni, mi ritrovai in Congo.

Quanti anni avevi?

Avevo quattordici anni. Era il 1952 e quello è stato il periodo più fantastico della mia vita! Abitavamo a Elisabethville, ma spesso mi mandavano a Kisangani, dove c’era lo stabilimento dello zio e un piccolo villaggio dove alloggiavano le maestranze indigene. Avevo imparato velocemente un po’ di swahili e tutti i sabati avevo il compito di aprire il negozietto dove avveniva un piccolo commercio di pesce secco, farina di manioca, sale e tutti gli altri generi di prima necessità. Era un lavoretto che mi piaceva e in quel luogo avevo la possibilità di vivere in libertà tra piante e animali… Nel 1955 in Congo incominciarono i primi disordini e mio padre venne subito a prendermi per riportarmi a casa. Mai più avrei ritrovato quel periodo felice fatto di savana, di profumi, di spazi, di tramonti… A Porcia mi fecero fare un veloce corso di contabilità e finii in ufficio fino a ventiquattro anni. Qualche cosa di divertente però successe ancora: la conceria di mio padre fu scelta come fornitrice di suole di cuoio per la spedizione italiana sul K2 e conobbi Lino Lacedelli, che era il capo spedizione. Affascinata da questo personaggio, cominciai a passare le mie estati alla scuola di alpinismo di Cortina d’Ampezzo e tra gli «Scoiattoli» imparai a scalare le montagne. Partecipai a due spedizioni sull’Everest e una sulle Ande. Ero un’irrequieta! Poi, però, è arrivato Collavini e sono finita sposata.

Ma il giardino? Le piante e i fiori?

Da sposata sono venuta ad abitare in questa casa. Il giardino era triste e severo, c’erano solo due grandi vasche, però in un angolo trionfava un enorme faggio rosso pendulo, bellissimo! Qualche mese dopo, lo abbatterono per far posto a un capannone e per me fu un grande dolore. Aspettavo il mio primo figlio e papà, per consolarmi, piantò un altro faggio. «È per il bambino» disse. Gli chiesi di mettere davanti alle mie finestre delle rose rosse e lui creò due aiuole: una tutta di ‘Soraya’ e l’altra di ‘Bacarà’. Qualche anno dopo quelle rose rosse finirono per significare poco per me. Chiesi a mio padre di togliere tutto quel rosso e al suo posto di piantare le bianche ‘Iceberg’. Intanto anche il giardino era cambiato: avevo tre bambini piccoli che scorazzavano e le grandi vasche furono riempite di terra e ricoperte da masse di hoste, poi avevo piantato dei salici piangenti e una lunga siepe composta di tanti arbusti da fiore. Mio padre creò davanti alla siepe una bordura di iris bianchi per richiamare il candore delle rose ‘Iceberg’ e io avevo sistemato qua e là dei divani di vimini anch’essi bianchi. Era il periodo delle comunioni. Passarono gli anni, i bambini erano diventati ragazzi e i problemi furono altri. Fu quello il periodo in cui mi sentii più sola, ma anche finalmente più libera di avere attorno a me delle cose e delle situazioni che mi fossero più consone. Così incominciai a trasformare il giardino come se fosse il prolungamento esterno della mia casa. Creai degli spazi chiusi da siepi, come se fossero delle stanze e ricoprii tutti i muri con rampicanti verdi. Volevo un luogo dove sentirmi protetta e nascondere alla vista quello che stava succedendo fuori: capannoni orribili, brutte case e tutto ciò che negli anni Settanta era sorto per cancellare con prepotenza il paesaggio agricolo del Friuli.

È stato in quel periodo che mi sono ricordata della prozia Anna e delle sue violette doppie. Ebbi nostalgia della mia infanzia e le cercai, ma nessuno le aveva. Ritrovai invece l’erba cannella e l’erba rosa a Londra, nel giardino di Chelsea e scoprii che erano dei pelargoni e che facevano parte di una grande famiglia che comprendeva diverse varietà, ognuna con una profumazione diversa. Tornata in Italia cominciai a cercarli nei vivai, ma nessuno sapeva neanche che cosa fossero, almeno fino a quando conobbi Anna Peyron.

Lucilla Zanazzi

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