Gutta cavat lapidem. Per non dimenticare il problema sistemico dell’acqua
La goccia scava la roccia. Una bella immagine con la quale i latini esprimevano la forza dell’acqua, ma anche il valore della tenacia nel perseguire un obiettivo.
L’acqua è una risorsa preziosa, non disponibile per tutti nella stessa misura e con la stessa libertà di approvvigionamento. E’questo un tema che non ha scadenza e che non andrebbe ricordato solo un paio di volte all’anno, in attesa che, nel frattempo, si compia il destino degli emarginati della Terra.
A tenere alta l’attenzione e a scavare quotidianamente la roccia, ci pensano organismi come il Pacific Institute, il Chartered Institute of Water and Environmental Managers, il Northwest Earth Institute, l’Agenzia Europea dell’Ambiente e lo Stockholm International Water Institute (SIWI), che si sta preparando ad organizzare la ventesima edizione della Settimana Mondiale dell’Acqua (World Water Week), a Stoccolma, dal 5 all’11 settembre 2010.
Dal 1992 si celebra, ogni anno, il 22 marzo, la Giornata Mondiale dell’Acqua, istituita per la prima volta nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e sullo Sviluppo, tenutasi a Rio De Janeiro. Vero è anche che, per anni, importanti organizzazioni non governative, istituti di ricerca e singoli specialisti, come Frank Rijsberman - già a capo dell’International Water Management Institute – o Ismael Serageldin, ex vice presidente della Banca Mondiale con delega allo Sviluppo Sostenibile, hanno lavorato per convincere l’opinione pubblica mondiale di come il mancato accesso alle fonti di acqua, la loro scarsità o inquinamento costituissero una grave minaccia per le popolazioni di molti paesi.
Eppure è solo in occasione del Forum Economico Mondiale del 2008 che l’élite politica ha compreso pienamente come l’acqua fosse una risorsa cui occorreva dedicare un’attenzione strategica e studi rigorosi e il cui ciclo andasse regolato con strumenti di governance e scelte condivise a livello internazionale. Da quel momento anche per la comunità degli economisti, degli analisti dei think tank più prestigiosi, dei geopolitologi e degli esperti di energia la questione idrica ha finalmente assunto la dignità di “problema sistemico”, cui è bene riservare le stesse cure prestate al petrolio o ad altre risorse considerate strategiche.
La domanda di acqua sta infatti aumentando in seguito all’incremento della popolazione e all’intensificazione delle attività umane. Secondo Ismael Serageldin “in questo secolo solo i prelievi di acqua a livello mondiale sono aumentati di dieci volte, con una quota sempre più consistente riservata a usi industriali e domestici”. Il dramma si pone dunque con l’urgenza della cronaca, anche se l’opinione pubblica è sempre più distratta da eventi apparentemente più glamour.
Oggi, oltre un miliardo di persone vive senza acqua pulita e più di un miliardo e settecento milioni è priva di condizioni igienico-sanitarie adeguate. Dallo Sri Lanka alla Mauritania, dal Ghana alla Tanzania, all’India, alla Cina ogni giorno, in tutto il mondo, il problema idrico si manifesta sotto varie forme: inquinamento delle falde, delle sorgenti o di interi bacini dovuto all’uso dei fertilizzanti chimici e all’industrializzazione selvaggia, relativo aumento delle malattie mortali quali il cancro all’intestino o la metaemoglobinemia, aumento della desertificazione e dell’inaridimento delle fonti, carenza di potabilizzazione dell’acqua e di accesso a sorgenti pulite, tanta, troppa acqua consumata per le piante destinate ai biocarburanti, fortemente incentivati.
In quest’ultimo settore, in particolare, la situazione all’orizzonte sembra piuttosto critica, considerati gli ambiziosi programmi di Stati Uniti, India e Cina, che rischiano di sottrarre enormi quantitativi d’acqua per la produzione di biofuel.
Intanto, con l’aumento del reddito disponibile, si ingrossano le fila dei nuovi consumatori che si affacciano sul mercato. E che pretendono, giustamente, una dieta variegata e non, come un tempo, fatta di solo riso. L’aumento demografico richiede un’ intensificazione delle coltivazioni. Che comporterà un maggiore stress idrico per il Pianeta.
Il circolo è virtuoso, o vizioso, a seconda della metodologia e dell’ideologia con cui si approccia l’argomento. L’agricoltura resta infatti un’opportunità anche per l’ambiente. In teoria si potrebbe pensare di incrementare le produzioni agricole per stabilizzare in atmosfera i livelli di CO2, grazie ai circa 1,5 miliardi di ettari di superficie agraria totale mondiale, che garantirebbero l’assorbimento di enormi quantità di CO2 – al netto delle perdite legate alla respirazione del terreno e ai consumi energetici di macchinari, concimi o diserbanti. Basti pensare che un ettaro di mais, in grado di produrre, allo stato dell’arte, 14 tonnellate di granella, garantisce l’assorbimento di 42 tonnellate di anidride carbonica e che l’utilizzo dell’agricoltura per governare il ciclo del carbonio chiuderebbe virtuosamente il ciclo della vita e restituirebbe centralità alla questione della produzione di cibo e beni di consumo. In quantità sufficiente per un’umanità che, secondo stime attendibili, raggiungerà i 9.5 miliardi di individui nel 2050.
Un’opportunità che tuttavia ha il suo rovescio della medaglia nelle principali regioni di produzione cerealicola – come Stati Uniti e India - dove l’utilizzo dell’acqua supera di molto le risorse disponibili. Ma il prosciugamento del Pianeta dovuto all’estensione delle coltivazioni è solo un aspetto del problema idrico. Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) saranno necessari 1.040 miliardi di dollari all’anno, per quindici anni, per mantenere e rimodernare le infrastrutture di distribuzione dell’acqua in 34 Paesi, sei dei quali emergenti. E fino all’anno scorso il gap da coprire era ancora di 580 miliardi di dollari.
Anche le municipalità dei paesi più industrializzati del mondo hanno problemi di potabilizzazione dell’acqua, troppo spesso colpevolmente sottovalutati. Le perdite d’acqua nelle reti idriche ammontano a circa il 30%. Ben più drammatica, tuttavia, la situazione nelle economie emergenti, dove le perdite di rete arrivano anche al 70%.
Gli abitanti del Medio Oriente e del Nord Africa possono disporre, pro capite, solo di 1.250 metri cubi di acqua all’anno (uno dei livelli più bassi del mondo). E le previsioni sono per un calo ulteriore del 50% entro il 2025.
Il paradosso è che mentre in quest’area – o in Asia (3.283 metri cubi di acqua pro capite all’anno) - la pressione demografica è assai forte, nelle regioni dove l’acqua è più abbondante, come America Latina (23.103 metri cubi a testa) e Nord America (18.742 metri cubi pro capite) non si devono affrontare problemi di così vasta portata.
Bruno Pampaloni