Artide e Antartide, due ecosistemi fragili e mutevoli
Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento inviatoci da Gabriella A. Massa, archeologa inuitologa, coordinatrice per la Provincia di Torino dell’IPY (International Polar Year) e prima firmataria del “Manifesto per i Poli“, presentato al Museo di Scienze Naturali di Torino il 1 dicembre 2009. Nel testo si fa riferimento alla prima causa al mondo ”per reato di Global Warming”, intentata dalla popolazione Inuit di Kivalina nei confronti di 4 compagnie petrolifere e 14 aziende elettriche americane.
I Poli, ancora oggi terre incognite e leggendarie, sono le regioni più fredde della Terra ed anche le più fragili, che risentono in particolar modo dei cambiamenti climatici, prodotti principalmente dall’utilizzo di combustibili fossili che provocano l’aumento delle emissioni di biossido di carbonio (CO2) e di altri gas ad effetto serra, ed il conseguente surriscaldamento della Terra.
Gli studiosi, negli ultimi anni, hanno constatato un forte aumento della temperatura media dell’aria e dell’acqua, importanti scioglimenti dei ghiacciai ed un incremento del livello dei mari e, indipendentemente da quanto riusciremo a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, il riscaldamento globale e l’innalzamento dei mari continueranno per secoli. Per questa ragione, entro il 2050 è indispensabile avere almeno dimezzato a livello globale le emissioni di CO2, dannose per il clima. Altri fattori che causano l’aumento della temperatura ed il conseguente scioglimento del ghiaccio sembrano essere legati alle attività agricole e forestali. Il settore energetico detiene la quota di emissioni più alta e con il tasso di crescita più elevato (2.2% annuo tra il 1990 ed il 2002). Le emissioni del settore trasporto sono cresciute del 30% rispetto al 1990; il trasporto aereo è responsabile del 2% delle emissioni globali.
Le immagini satellitari dimostrano chiaramente che in nessun altro luogo il cambiamento climatico procede ad un ritmo così incalzante come al Polo Nord e, più recentemente, anche al Polo Sud, di cui ricordiamo il distacco, nel Mare di Ross, dell’enorme Iceberg B15 (grande come la Valle d’Aosta), avvenuto nel 2002 e che ancora oggi continua a frammentarsi.
Dagli anni ’50 ad oggi, la coltre ghiacciata artica si è ridotta di circa il 35% e, secondo recenti studi condotti a livello internazionale, tra il 2004 e il 2005 la regione artica ha perso il 14% dei suoi ghiacci e se non saranno modificati i ritmi di inquinamento attuali, entro il 2070 la banchisa dell’Artico rischierà di scomparire a seguito delle conseguenze dell’effetto serra e del riscaldamento climatico. Grida di allarme provengono anche dalla NASA, secondo cui tra il 2004 e il 2005 l’Artide ha perso una superficie pari alla Penisola iberica, oppure dal Gruppo d’esperti intergovernativo sull’evoluzione del clima dell’ONU, che prevede un drastico scioglimento del ghiaccio artico tra il 2050 e il 2100.
Il nostro Pianeta, nel corso della sua storia (quattro miliardi e mezzo di anni), ha sempre avuto un’alternanza ciclica e naturale di ere glaciali e di cicli con temperature più calde, i cui effetti positivi hanno favorito lo sviluppo di nuove Civiltà. Ad esempio, condizioni climatiche favorevoli hanno permesso lo sviluppo della Civiltà in generale, ed in particolare di antiche civilizzazioni, quali l’Egitto, la Mesopotamia, l’India e la Cina. La colonizzazione dell’estremo Nord, all’inizio dell’Olocene (circa 10.000 anni fa) con l’arrivo dell’Uomo Moderno, è avvenuta durante un periodo interglaciale, con la conseguente riduzione dei ghiacciai e dell’Inslandsis e lo sviluppo progressivo del “Gulf Stream” (corrente del Golfo) che ha consentito l’aumento della produttività marina.
L’allarme che destano le attuali problematiche di surriscaldamento e di instabilità climatica è dovuto al modo repentino in cui i fenomeni si stanno manifestando: non siamo in presenza di cicli naturali del Pianeta, ma presumibilmente di effetti nefasti causati dall’attività umana, le cui conseguenze dureranno per molto tempo.
Un altro grave problema è quello della sovrappopolazione. In passato, la Terra era abitata da un numero esiguo di persone che ricavavano dalle risorse naturali il loro sostentamento, senza impatto sull’ambiente. Oggi, la popolazione mondiale supera i sei miliardi. I tassi di crescita demografica sono saliti vertiginosamente dalla fine della seconda guerra mondiale, periodo in cui l’assistenza sanitaria migliorava ed i decessi diminuivano. Dopo il picco del 2.1% raggiunto intorno al 1970, la crescita demografica mondiale annuale si è stabilizzata all’1.3%, a partire dal 1999. Nonostante tale frenata, c’è una grande disparità tra i tassi di crescita delle singole nazioni. Nel terzo mondo, la percentuale è del 40%, ma si stima che raggiungerà il 56% entro il 2030. Un terzo della popolazione oggi ha un’età inferiore ai 14 anni, mentre 606 milioni di persone hanno più di 60 anni. Questi ultimi saliranno a 2 miliardi entro il 2050. Nel 2050, si prevede che la popolazione terrestre salirà a nove miliardi di persone e l’impatto ambientale sul pianeta sarà enorme. La crescita della popolazione e l’intenso sfruttamento delle risorse della Terra influenzeranno la sostenibilità socio-ambientale più di qualsiasi altro fattore, e il destino del pianeta dipenderà dalle politiche che saranno adottate dai Governi.
Le popolazioni autoctone dell’Artide, quali Inuit, Evenchi, Jacuti, Nency e molti altri popoli circumpolari, sono state tra le prime a subire le pesanti conseguenze che il riscaldamento globale causa all’ambiente e ci mettono in guardia dai pericoli derivanti dai cambiamenti climatici che minacciano le regioni artiche.
A causa dell’aumento del livello degli oceani e dell’instabilità del clima, i ghiacci che d’inverno proteggevano le coste artiche si formano molto avanti nella stagione invernale ed espongono numerosi villaggi della costa alle violente tempeste dell’Oceano artico. Molte case sono distrutte dalle mareggiate, altre devono essere abbandonate. Ad esempio, i villaggi di Shishmaref e Kivalina in Alaska stanno lentamente scivolando a mare, poiché, a causa della riduzione del ghiaccio marino, essi sono molto più esposti ai venti che causano un’erosione del suolo sempre più accelerata.
La situazione è talmente grave che i trecentonovanta abitanti di Kivalina hanno deciso di denunciare alcune grandi compagnie petrolifere, quali la Exxon, la Shell e la BP, poiché considerate le responsabili del disastro: il pianeta si sta riscaldando a causa delle emissioni di gas serra, dunque è per colpa dei petrolieri che si stanno sciogliendo i ghiacci del Polo nord. Questa sfida lanciata ai giganti del petrolio dagli Inuit è la prima causa mai intentata negli Stati Uniti per “reato di Global Warming”. La legge statunitense non prevede tale reato, ma i legali del villaggio di Kivalina hanno deciso di procedere con la causa, sostenendo che se il ghiaccio intorno alla loro piccola isola si sta sciogliendo è colpa di quattro compagnie petrolifere e quattordici aziende d’elettricità americane, che provocano una quantità enorme di gas serra: I danni, di portata tale da mettere a rischio la vita stessa dell’isola, sono accertabili e facilmente dimostrabili.
A causa dello scioglimento del ghiaccio marino, destano particolare preoccupazione anche i tentativi compiuti da alcuni paesi che si affacciano sulle regioni artiche di estendere le loro zone di influenza al fine di assicurarsi i profitti delle risorse naturali. In effetti, secondo le convenzioni marittime internazionali, la sovranità delle aree marittime è data dall’espansione dello zoccolo continentale, che con lo scioglimento del ghiaccio aumenterebbe. Oltre alle risorse naturali, i paesi limitrofi alle regioni artiche sarebbero interessati anche ai consistenti banchi di pesci e di granchi e alla possibilità di aprire nuove vie marittime libere da ghiaccio nel nord del Canada e della Russia che comporterebbero grandi risparmi nel trasporto di risorse energetiche e di merci. Alcuni governi occidentali e le multinazionali del petrolio tenteranno sicuramente di approfittare dei cambiamenti climatici per sfruttare economicamente le regioni artiche, danneggiando l’equilibrio socio-ambientale delle oltre 400.000 persone appartenenti alle popolazioni autoctone circumpolari.
I cambiamenti climatici sono anche responsabili delle variazioni nell’equilibrio naturale di fauna e flora. Per esempio, molte mandrie di alci, caribù (renna canadese) e renne hanno dovuto modificare le antiche vie di migrazione alla ricerca di nuovi pascoli ed hanno sempre più difficoltà a trovare il cibo a causa dell’assottigliamento della crosta di ghiaccio. Foche, leoni marini e orsi polari soffrono ormai della mancanza di cibo e sono a fortissimo rischio d’estinzione. Anche il patrimonio ittico è in forte calo, con la conseguente rilevante riduzione di una delle principali fonti alimentari di decine di migliaia di popoli autoctoni. L’assottigliarsi del ghiaccio compromette anche la riproduzione e la sopravvivenza dei cuccioli di specie animali quali le foche e gli orsi polari. L’innalzamento della temperatura sta modificando la linea subartica della vegetazione, che sta lentamente avanzando verso nord, introducendo nell’Artico le specie animali e vegetali che vivono nelle foreste. Ad esempio, l’orso nero del Nord America, detto anche orso “baribal”, sta gradualmente occupando l’habitat dell’orso polare, mettendone a rischio la sopravvivenza. Lungo le coste della Baia di Ungava, si è persino visto il tarassaco (taraxacum officinalis), una specie vegetale ben conosciuta in Italia!
Ad essere minacciati non sono solamente flora, fauna e popolazioni Artiche, ma l’intero pianeta. Senza ghiaccio, e conseguentemente senz’acqua, il Pianeta non può sopravvivere. Proprio per questa ragione è importante concentrarsi sul ruolo vitale delle regioni polari, barometri del clima mondiale, per ampliare le conoscenze sulle ripercussioni dei cambiamenti climatici sul pianeta. Esplorando i Poli, durante l’IPY [International Polar Year, N.d.R.], i ricercatori coinvolti tenteranno di recuperare le tracce del passato nelle profondità dei ghiacci, di spiegare la presenza della vita e l’adattabilità in situazioni estreme o ancora di illustrare la relazione tra la superficie dell’oceano e l’atmosfera.
Gabriella A. Massa