Theresa May e i brutti segnali per il futuro ambientale UK: nucleare, fracking e poca attenzione al “climate change”
L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sarà un processo lungo, macchinoso e ancora avvolto nel mistero. Ma senza dubbio non sarà privo di conseguenze politiche e cambiamenti, anche per quanto riguarda la legislazione ambientale, come avevamo già scritto.
Per valutare lo stato dell’arte sui temi ambientali e i possibili scenari che si presenteranno sul tavolo della nuova prima ministra Theresa May, bisogna anche ricordare che, al momento dell’adesione all’UE era uno dei Paesi più inquinati, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Dirty man of Europe”.
Dal 1973 molti passi avanti sono stati compiuti, in buona parte proprio grazie all’appartenenza all’Unione Europea, per questo alcune associazioni ambientaliste temono ora l’inversione di rotta.
Il Regno Unito potrebbe mantenere la sua posizione nel mercato interno, restando un membro dell’Area Economica Europea (EEA), con status simile a quello di Norvegia o Islanda. E restare nella EEA manterrebbe in vigore molte delle leggi ambientali. Tuttavia, è possibile che le norme europee giudicate più restrittive lascino spazio a un quadro molto meno garantista. Non è, infatti, assolutamente chiaro quali leggi verranno mantenute. Come emerge dalle parole di Craig Bennett, a capo di Friends of the Earth UK: “Ora inizia la lotta per assicurarsi che il Regno Unito non affoghi le tutele ambientali che abbiamo ereditato dall’Unione Europea. La nostra priorità sarà quella di garantire che ogni parlamentare capisca forte e chiaro che il risultato del referendum non è un mandato per indebolire la nostra tutela dell’ambiente”.
I rischi più forti li corre la politica climatica del Regno Unito. Per due ragioni. La prima: Londra aveva concordato i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, delle rinnovabili e del risparmio energetico con Bruxelles, ma all’interno di obiettivi comuni dell’Unione Europea che sono stati una delle leve che hanno permesso l’Accordo di Parigi alla Cop21 del dicembre 2015. C’è ora da capire se il Paese ratificherà il trattato come parte della UE, e quindi sulla base di quanto negoziato insieme o meno. La seconda: Theresa May nel redistribuire cariche e poltrone ha eliminato il dipartimento ministeriale che si occupava di climate change. Cedendo le competenze in materia a quello che si occupa di Business, Energy & Industrial Strategy. Un indizio che lascia intuire come il problema non sia considerato al top dell’agenda politica del nuovo premier, pink ma forse non green.
Sul fronte energetico c’è anche la certezza quasi monolitica del sostegno politico per il nuovo reattore nucleare a Hinkley Point. L’appena nominato Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond ha, infatti, espresso tutta la sua determinazione nel vedere attuata la costruzione della centrale. Inoltre è noto come la nuova premier Theresa May si sia sempre schierata contro la regolamentazione ambientale del fracking.
Sul taglio delle emissioni di CO2 l’uscita del Regno Unito dall’UE comporterebbe un fortissimo impatto economico sui 27. Se gli inglesi decidessero di fare per sé, infatti, i rimanenti Paesi dovrebbero spendere miliardi di euro in più per ridurre le emissioni di carbonio. Questo perché la legislazione nazionale che stabilisce tagli delle emissioni di CO2 entro il 2030 è più rigida di quella fissata a livello UE. Gli Stati più colpiti sarebbero Portogallo, Slovenia, Malta, Grecia, Cipro, Spagna e Italia, che dovrebbero assumere maggiori impegni climatici. La Commissione Europea ha rifiutato di commentare questa analisi compiuta da Climate Action Network Europe, anche se, secondo alcuni, questo scenario di investimenti “verdi” inizialmente più impegnativi del previsto per gli Stati membri – guardato da una differente prospettiva – potrebbe addirittura rivelarsi migliorativo e challenging, nel senso positivo del termine.
Sul fronte naturalistico, se è vero che in Europa la scomparsa di milioni di uccelli dipende in gran parte dalle politiche agricole comunitarie (che hanno favorito per lungo tempo l’agricoltura intensiva), è però altrettanto vero che la nuova Politica Agricola Comune ha virato verso maggiori criteri di sostenibilità, prevedendo un maggiore sostegno anche per i contadini e gli allevatori britannici, che ora non sanno cosa li aspetta anche in termini di accesso ai sussidi. Una ferita aperta, sulla quale molti leader pro-brexit hanno cercato di mettere un cerotto assicurando il “completo sostegno economico nazionale”. La National Farmers Union (NFU), uno dei pilastri del Partito Conservatore del neo-premier, per altro, si è schierata per la Brexit anche perché – al contrario di molte associazioni agricole continentali – vuole l’abolizione del divieto di utilizzare i pesticidi che danneggiano le api e altri impollinatori essenziali. Nonché il cancerogeno (ma per la NFU non lo sarebbe) glifosato. Storicamente, oltre ai rappresentanti dei lavoratori agricoli, anche i Ministri dell’Agricoltura e dell’Ambiente britannici si sono sempre opposti ai divieti UE, ma poi si sono dovuti adeguare alle decisioni degli altri Paesi europei. Nulla vieta, in futuro, di cambiare la legislazione e tornare all’amato fai-da-te.
Ci sono infatti anche i pescatori inglesi a sperare di liberarsi delle odiose “quote europee”, le stesse che, seppure nella loro imperfezione, hanno però permesso il recupero degli stock che erano stati decimati fino quasi all’estinzione commerciale. Anche qui gli esperti dicono che senza protezioni forti come quelle UE la nuova abbondanza di pesce non durerà per molto tempo a causa della guerra ittica che probabilmente si scatenerà con alcuni stati vicini che non fanno parte dell’UE (la Norvegia?).
Per quanto riguarda infine la qualità dell’aria, molte aree della Gran Bretagna rimangono al di sopra dei limiti imposti da Bruxelles, ma il governo conservatore di David Cameron aveva già – prima della Brexit – cercato di non applicare le norme UE. Inoltre, l‘Ukip di Nigel Farage, il politico che più si è battuto per la brexit, non crede che il cambiamento climatico sia un problema e vuole abolire i limiti di inquinamento per le centrali elettriche.
Tanti se e altrettanti ma dovuti al limbo in cui è caduto il governo di Londra. Quello però che si è già potuto vedere “in diretta” è il crollo post-brexit dei mercati finanziari. Un effetto che, senza dubbio, danneggerà gli enormi investimenti necessari a sostenere un rapido sviluppo della green economy britannica - diminuendo la competitività, su scala globale, del Regno Unito.
Beatrice Credi