Sull’aliante verso…
È primavera in tutto il mondo, è primavera nello stesso momento. È primavera nella regione del Piedismonte, più precisamente a Tuttorino, detta Grande Città, una metropoli che ingloba ogni cosa, compresa se stessa.
Sono Giacomo, ho otto anni. Alfredo, mio nonno, ne ha 70 più di me. Ogni tanto viene a trovarmi. La domenica, precisamente. La domenica viene a prendermi e io, che lo so, mi preparo. Questa domenica nonno Alfredo arriva prima, verso le nove. Sento la sua voce che sale dalle scale quando dice a mamma: “Sono venuto a prendere lo scricciolo!”. Allora io mi metto le scarpe e la maschera antigas, che è obbligatoria qui nella Grande Città.
Sulla mia c’è disegnato sopra il personaggio del mio cartone preferito, il detective Foglia, un ometto che esce senza maschera antigas e che indaga e scopre i posti verdi, del passato, luoghi in cui si camminava su una cosa chiamata “prato”, fatta con una cosa che si chiamava “erba”. Dev’essere stato soffice camminarci sopra. Mia mamma dice di aver ancora visto la natura, io no e non la vedrò mai se non me ne andrò dalla Grande Città. Nonno l’ha sicuramente vista e vissuta. Io vorrei uscire senza maschera antigas, come fa il detective Foglia, ma mamma non vuole. Vedo nonno in fondo alle scale. Ha il bastone, un grande zaino e una chitarra protetta da una custodia di pelle:
– “Nonno, non hai mai avuto il bastone”.
- “Sto invecchiando, Giacomo. Su forza andiamo oggi ti porto in una sala giochi nuova, ci andiamo in macchina”.
Evviva, mi vedo già superare il mio record del gioco in cui spari a tutti e tutto. A nonno non piace, ma è normale, lui è vecchietto e non può capire. Ogni persona nella Grande Città, gira con una grossa arma a tracolla, una specie di fucile. Anche mamma e papà, nonno no. Lui mi prende per mano, come faceva quando ero davvero piccolo e quando saliamo in macchina, la sua macchina elettrica che non fa rumore, mi immagino di essere su una navicella spaziale, come quella dei Futors, il fumetto degli uomini del futuro che guardo il sabato mattina. E poi immagino che nonno si toglie i suoi spessi occhiali da vista, dietro il fondo di bottiglia ha gli occhi azzurro cielo, ma non il cielo di Grande Città che è sempre grigio, bensì quello dei cartoni animati, per mettersi quelli da aviatore. Come quelli che porge a me, quando stiamo per volare.
Al di là del grigio del cielo, ci sarà l’azzurro dei fumetti? E sotto il grigio dell’asfalto, sarà rimasto il verde dei prati?
Nonno mi racconta quando facevano i picnic sull’erba, lui e nonna che non c’è più per colpa dell’aria di Grande Città, così mi ha detto mamma. Chissà dov’è adesso nonna e chissà se sa dirmi dove sono l’azzurro e il verde. Chissà chi ha rubato i colori.
Io e nonno, in macchina, restiamo silenziosi. Non accendiamo nemmeno la radio. È come se volessimo sentire il ritmo dei nostri respiri e il battito dei nostri cuori, solo quello che ci succede dentro. Il mio inspirare è molto profondo e poco naturale a causa della maschera antigas. Intorno a noi vediamo uomini organizzati a gruppi che fanno le ronde, armati, sui marciapiedi dove non giocano bambini e non passeggiano i signori. Non c’è nessuno in giro, solo i “rondisti”. Nonno li detesta, dice che allontanano i civili spaventandoli, per non fare più uscire di casa nessuno, per non fare incontrare nessuno, non far parlare, non far divertire, non far abbracciare, non far amare. Effettivamente sono brutti e fanno paura anche a me. Tutti vestiti di nero, le espressioni arrabbiate sempre e i fucili lunghi a tracolla.
È più di un’ora che siamo in macchina e la sala giochi proprio non si vede, anzi ci stiamo allontanando da Grande Città. Sono emozionato, se dobbiamo fare tutto questo tragitto ne varrà la pena. Magari ora chiudo un attimo gli occhi e…
…il Prato di Marmellata
Sono Alfredo e ho 78 anni. Mia moglie è morta dieci anni fa e io ho circa un mese di vita per una malattia polmonare. Ora sono in macchina, da tre ore, con mio nipote Giacomo. Lui ne ha otto di anni e non ha mai visto il verde, non è mai uscito da Grande Città. Ci stiamo allontanando dalla prigione della metropoli, sembriamo due carcerati che evadono. Ho addosso tutta l’adrenalina della fuga da quel posto terribile, dal grigio, dalle ronde, da uomini che sembrano macchine, dalle maschere antigas e i fucili portati a tracolla come borsette. Siamo io e Giacomo e lui non sa dove lo sto portando, gli ho detto che andiamo in sala giochi, volevo fargli una sorpresa. È da anni che non mi sento così vivo. Mi immagino aviatore di un aliante, in balia del vento. Mio nipote accanto a me, con gli occhialoni per proteggersi e un giubbotto verde. È da anni che non mi sento così vivo. Proprio ora che sono vicino alla morte. Trenta giorni e mi porta via tutto, mi porterà via anche mio nipote, non potrò vederlo più, come mi ha già portato via mia moglie, Emma. Ma non lascerò Giacomo solo prima di avergli fatto scoprire quel posto.
Io e Emma lo chiamavamo il Prato di Marmellata. Quaranta metri quadri di verde, gli ultimi rimasti in zona, e un albero, come fosse un custode. Un sogno sconosciuto ai più. Io e Emma andavamo lì, con un cestino da picnic, mangiavamo un panino con la marmellata, suonavamo, cantavamo e leggevamo un libro dopo l’altro.
Ecco, siamo arrivati. Non si vede ancora il prato perché c’è un piccolo sentiero d’asfalto per arrivarci. Guardo mio nipote e si è addormentato, lo sveglio con un buffetto sulla guancia.
– “Giacomo scendi, siamo arrivati”.
Percorrendo il sentiero d’asfalto, il bambino mi ricopre di domande. “Dove siamo? Dov’è la sala giochi? C’è il gioco dell’invasione degli alieni? Quanto siamo lontani da casa?”.
Arriviamo al prato, Giacomo mi guarda. Vedo i suoi occhi luccicare. È emozionato. Gli slaccio la maschera antigas. Lui ha le lacrime agli occhi. Mi abbraccia, dice “Tu sei il detective Foglia, nonno”. Dallo zaino tiro fuori una tovaglietta bianca e rossa a quadretti, è quella che usavamo io e Emma per fare i picnic. Giacomo tocca l’erba del prato, la sfiora come fosse fragile. La sente viva sotto i suoi polpastrelli. Salta, gira su se stesso, sembra impazzire di gioia.
Ci sediamo a gambe incrociate. Estraggo dallo zaino due panini gonfi di marmellata, una bottiglia d’acqua e due bicchieri di plastica da campeggio, quelli che si ritirano su loro stessi come cannocchiali per non occupare spazio. Addentiamo il panino. Tiro fuori dalla custodia la chitarra. Mi sento di nuovo giovane e inizio a suonare per Giacomo una canzone che avevamo scritto io e Emma. Lui accompagna la musica dondolando la testa. Grande città sembra un ricordo lontanissimo.
Il mondo è qui su questo prato, tutto il mondo in questo momento è qui tra l’erba con noi, tra il Mi bemolle della chitarra, negli occhi di mio nipote che respira senza maschera e sorride vicino a me.
Stephania Giacobone*
Allieva del Biennio in Scrittura e Storytelling della Scuola Holden*.