Singapore: una sfida tropicale tra sostenibilità e sviluppo
E’ facile sentirsi minuscoli e spiazzati quando si arriva a Singapore, rimpiccioliti da altissimi grattacieli dalle forme più strane e persi negli infiniti corridoi commerciali sotterranei. Non sembra vero che le torri di uffici dalle luci cangianti, simili a imponenti ed enormi robot, distino poche fermate di metropolitana dalla densa foresta tropicale.
A prima vista potrebbe sfuggire l’ampio spazio dato al verde in quest’isola-stato ubicata pochi gradi sopra l’equatore. E invece, a due passi dal centro commerciale e finanziario della città, i ragazzini fanno volare gli aquiloni correndo sul prato di un enorme serbatoio di acqua potabile che da’ sul mare aperto e la discarica del paese è un’enorme isola, meta di passeggiate alla scoperta della natura.
Definita dal giornalista Cherian George “la nazione ad aria-condizionata” per aver saputo sposare comfort e controllo centrale, Singapore è un esempio unico al mondo di paese che, basandosi su una precisa idea politica, economica e sociale, ha saltato tappe a passi da gigante e in meno di mezzo secolo è passata dal terzo al primo mondo.
L’elemento architettonico è sicuramente ciò che salta per primo all’occhio. A Singapore si tirano su e giù palazzi come castelli di carte e la città è un perenne cantiere, tanto che c’è chi ha ironicamente suggerito che l’animale simbolo dovrebbe essere la gru. Tuttavia, i massicci interventi edilizi non hanno impedito l’affermazione degli standard di sostenibilità ambientale stabiliti dal Green Labelling Scheme, per cui oggi tutti gli enti costruttori sono tenuti ad utilizzare soluzioni eco-compatibili e quindi a progettare tutti i nuovi edifici in modo da ottenere punti e agevolazioni; ad esempio gli impianti di aria condizionata già in alcune zone sono centralizzati e non più individualmente collocati sulla sommità dei grattacieli ed è stata introdotta una direttiva che impone di restituire al verde il 100% della superficie edificata collocando giardini pensili sui tetti o creando aree verdi comuni nell’edificio.
Inoltre, a livello pedonale, sono state trovate soluzioni per creare spazi pubblici all’aria aperta dove i passanti abbiano un po’ di comfort, come ad esempio i ventilatori funzionanti ad energia solare che si azionano quando i sensori avvertono il passaggio di pedoni o il serpentone di acciaio inossidabile lungo 250 metri che spruzza acqua vaporizzata a seconda della temperatura esterna, entrambe creazioni fantasiose progettate dallo studio australiano Cox e collocate lungo la passeggiata di Marina Bay, sede dell’ultimo grande intervento urbanistico.
La pianificazione della città ha previsto ampie zone consacrate alla natura: chilometri di percorsi permettono di attraversare la città passando per sentieri immersi nella foresta tropicale, compresa nello spazio cittadino e rendono Singapore una delle città più verdi del continente. Ponti pedonali come l‘Alexandra Arch o l’Henderson Wave, particolari opere architettoniche integrate nella natura, collegano le varie riserve naturali quali il Bukit Timah o la Labrador Reserve formando la cosiddetta Green Network, una rete di parchi, itinerari e zone verdi connessi tra loro.
Si dice che la necessità aguzzi l’ingegno ed ecco che il clima tropicale, l’imponenza dell’ambiente naturale e lo spazio limitato a disposizione hanno imposto l’esigenza di trovare costantemente soluzioni per ottimizzare le risorse in modo da mantenere un equilibrio tra sviluppo e natura, ovvero sposando un livello di vita elevato pur preservando l’ambiente.
La gestione dei rifiuti è un esempio di soluzione innovativa, seppur discutibile. Unendo due isole, Pulau Semakau e Pulau Sakeng, Singapore ha creato un’enorme isola-discarica che si prevede riuscirà a contenere i bisogni del paese fino al 2045. Dopo essere passati nei quattro inceneritori della città, i rifiuti approdano sulla spiaggia della discarica Semakau e foreste di mangrovie permettono di individuare eventuali sversamenti tossici e consentono la vita vegetale e animale nelle acque circostanti. L’esperimento pare talmente riuscito che l’isola è aperta al pubblico per escursioni e gite sportive.
Anche la questione delle risorse idriche è stata risolta in modo ingegnoso. In tutta l’isola sono stati creati numerosi bacini di acqua potabile, tutti fruibili dal pubblico come luoghi di svago immersi nella natura. Il più recente e spettacolare è sicuramente il Marina Barrage, diga e serbatoio idrico costruito in pieno centro. Costruita a forma di 9, in cinese simbolo di longevità, la struttura ospita sulla sua sommità il parco solare più grande di Singapore e un enorme prato dove si ritrovano giovani e famiglie. La diga separa acqua dolce e salata, funge da barriera per le inondazioni dovute all’alta marea e copre il 10% del fabbisogno idrico della città. Di fatto, Singapore si vanta di essere uno dei pochissimi paesi in Asia dove l’acqua corrente è potabile. Attualmente le fonti di acqua potabile (“i rubinetti”, come vengono definiti) sono l’acqua piovana, raccolta attraverso un complesso sistema di serbatoi e tubature, la cosiddetta “NeWater”, un tipo di acqua purificata ricavata dalle acque reflue, che copre il 30% del fabbisogno nazionale, l’acqua desalinizzata e l’acqua importata dalla Malesia. Ma l’obiettivo è di diventare al 100% indipendenti dalla Malesia potenziando l’utilizzo della NeWater e dei serbatoi come il Marina Barrage.
Per certi versi Singapore rappresenta una sorta di città utopica, realizzata secondo una visione che implica un’oculata gestione a tutti i livelli e che per realizzarsi ha richiesto una pianificazione mirata e controllata nei minimi dettagli. Per quanto l’estrema pianificazione possa spaventare o meravigliare, è indubbio che quest’esperimento studiato a tavolino abbia saputo accogliere nella sua idea di sviluppo anche l’attenzione per l’ambiente, plasmandola per creare una città’ vivibile (e vissuta) dai propri abitanti e non un mero luogo asettico, fatto solo di banche, uffici e centri commerciali, come spesso si crede.
Marcella Segre