Rubare l’erba a Roaschia
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Rubare l’erba”, di Marco Aime, edito da Ponte alle Grazie (pag. 120 , 12.00 euro ).
Partivano. La gente di queste parti è sempre partita. Da questa borgata, da questa valle. Non per salire sulle creste, per vedere un orizzonte nuovo o per conoscere posti diversi. No. Partiva perchè ci sono terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre. Non tutto l’anno. E allora si va, finchè ci sono posti dove andare.
Dovevi vedere la piazza quando partivamo, era piena di pecore. Ce n’erano dappertutto! Toni si gratta la testa sotto il cappello di panno, guarda verso il campanile che si infila in un cielo livido dal freddo. La Ruera era bianca! Tutta coperta di pecore. Tu forse non te lo ricordi nemmeno.
No, non me lo ricordo, ma non per l’età. Non me lo ricordo perchè io a Roaschia ci andavo in vacanza da bambino, nei primi anni Sessanta. Ci andavo in luglio o in agosto, ma i pastori partivano dopo, quando l’odore del primo umido d’autunno calava sul paese. Le nuvole iniziavano ad arrotolarsi su se stesse e a compattarsi, preparandosi ai grandi lavori dell’inverno. Ora mi sembra persino strano essere qui, a fare una ricerca, a fare l’antropologo. Di solito un antropologo si occupa di cose lontane, va a ficcare il naso nelle case di gente straniera, diversa da lui. Quanto sono diversi Toni e gli altri pastori da me? Tanto, abbastanza da stupirmi con quei loro racconti, da spingermi a cercare nelle pieghe della loro storia, e per niente, perchè anche se non mi ricordo quella piazza con tutte quelle pecore, dei pastori sì che mi ricordo. Ne sentivo sempre parlare a casa, dai miei, dai nonni, e quando, da bambino, non volevo mangiare qualcosa e facevo lo schizzinoso, mi dicevano sempre: Dovresti andare un po’ con i pastori, vedi che impareresti! Era una minaccia.
I pastori arrivavano qui a Roaschia dalla val Pesio, dalla val Vermenagna, dalla valle Stura, dalla val Chisone, da quegli alpeggi dove avevano passato l’estate. Si ritrovavano in paese, prima di andarsene di nuovo. Era sempre la stessa scena, uguale tutti gli anni.
Roaschia era combinata così, c’erano tre mestieri in pista: contadino, pastore e commerciante. Tutti e tre ti portavano via. Lo dice senza rabbia, Toni, e senza rimpianto. Lo dice così, come si parla di una cosa di cui non si può fare a meno. Come la pioggia, la neve, il fulmine, il lupo.
Partivano.
A ottobre prendevamo il cartun e andavamo al campeggio, aggiunge Toni ridendo. Era così, ogni famiglia aveva il suo carro e il mulo davanti.
Io ho due figli, racconta Margherita, sua moglie, una donna magra, occhi azzurri e vivaci sotto i capelli bianchi, e li ho fatti a tredici mesi uno dall’altro. Tutti e due in viaggio. Quando uno nasceva, lo caricavi sul carro e via. Io a volte dovevo andare a vendere la ricotta con la bicicletta e Toni, quando doveva partire, legava i piccoli sopra il carro perchè non cadessero. Ah, una vita… Margherita ha uno sguardo dolce, ma si vede che è una donna forte, che è inciampata nelle fatiche della vita, ma senza farne un dramma.
Una nebbia pesante si accascia sulla neve gelata che copre i pochi prati attorno al paese. Pochi oggi, ma quando ero piccolo quei castagneti che adesso coprono le rive del Bial non c’erano. Era tutto prato. I Funtanil erano uno scivolo d’erba smeraldo, da salire cento volte al giorno e da rotolarci giù. I castagni erano più in alto, molto più in su. Ora sono scesi. La loro pazienza ha avuto ragione degli uomini che li tagliavano. Dovevano farlo, per sopravvivere. Ma sono andati via, via da questo paese troppo stretto e ombroso. Da questa conca a cui la punta del Casternaut toglie il sole per tanti mesi l’anno.
Roaschia era un paese fatto per andarci via. Incastonato al fondo di una valle chiusa, stretta, dura. Un pugno di case in basso e più di trenta borgate (i teit, come li chiamano qui), sparse, arroccate sulla pietra, aggrappate ai pendii, affogate nei castagni. Dove si poteva vivere, i roaschini lo hanno fatto. Ogni metro quadrato è stato limato, scalpellato, scavato per farci una casa. Gli uomini sono tenaci, ma possono fino a un certo punto. Poi basta. Non c’è più spazio, e allora bisogna partire. Andare via. Via di qui, da questo paese ingoiato dalle montagne, al fondo di una valle, che è anche il fondo della strada. Come a dire: di qui non si va da nessuna parte. Invece partivano, via da Roaschia, il paese dei miei nonni, materni e paterni. Non quello dei miei genitori, no, loro sono nati a Torino e mia madre è cresciuta a Savona. Perchè quella di Roaschia era gente che partiva, partiva sempre.
Marco Aime*
*Marco Aime, torinese, insegna Antropologia culturale presso l’università di Genova. Tra gli ultimi libri pubblicati,Eccessi di culture (Einaudi 2004); L’incontro mancato (Bollati Boringhieri, 2005); Il primo libro di antropologia(Einaudi 2008); Timbuctu (Einaudi, 2008).