Referendum trivelle: “le ragioni delle Regioni”. Parola alla Basilicata!
In vista del referendum abrogativo sulle concessioni petrolifere di domenica 17 aprile, pubblichiamo, per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, un estratto dell’e-book “Laudato Sì, Trivelle No“, un appassionante e illuminante raccolta di interventi curata da Alfonso Pecoraro Scanio e Angelo Raffaele Consoli e edita da Aracne Editrice con la formula libera dei creative commons (il libro integrale è scaricabile gratuitamente a questo link). Qui di seguito l’intervento di Piero Lacorazza, Presidente del Consiglio Regionale della Basilicata, dal titolo “Referendum: le ragioni delle regioni“, nella sezione “La verità su questo referendum”.
Per la prima volta un referendum abrogativo di una norma decisa dal Parlamento viene promosso da dieci regioni. Detta così la circostanza suscita sorpresa. Ma come, mi viene chiesto da più parti, le regioni contro il Governo? Un conflitto istituzionale con il Parlamento? In realtà non tutti sanno che più volte, nei mesi scorsi, i rappresentanti delle Assemblee legislative regionali che hanno promosso il referendum hanno evidenziato la necessità di un confronto con il Governo poiché il nostro obbiettivo era cambiare le norme oggetto del referendum e riaffermare il principio di leale collaborazione fra Stato e regioni nell’interesse generale del Paese. Abbiamo chiesto più volte al Governo di ragionare insieme, ma non abbiamo ottenuto nessuna risposta.
La vicenda del referendum, sotto il profilo del rapporto fra istituzioni, nasce naturalmente molto prima. Il decreto “Sblocca Italia”, le dichiarazioni del premier sui “quattro comitatini” e sulla necessità di sfruttare i giacimenti petroliferi italiani hanno di fatto aperto un dibattito sfociato nella legge “Sblocca Italia”, che come ormai molti sanno ha provato a riportare in capo allo Stato procedure autorizzative (ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, inceneritori, ecc.) che prima vedevano la partecipazione delle regioni e degli enti locali. Quasi un’anticipazione, a costituzione invariata, della riforma del Titolo V in questi giorni in corso di (definitiva) approvazione da parte del Parlamento. In realtà la riforma del Titolo V appare più come una riposta, o meglio una forzatura, emergenziale alle inefficienze e alle colpe, presunte e reali, delle classi dirigenti locali che come una vera ridefinizione di funzioni e responsabilità delle regioni. Ed è fin troppo facile constatare come, con una buona dose di schizofrenia istituzionale, nell’ultimo decennio la tendenza si è totalmente invertita nel nostro Paese, passando dal decentramento amministrativo, all’annunciato federalismo, fino alla torsione centralista dell’ultimo periodo.
La riforma costituzionale voluta da Renzi è il frutto di questo processo ed irrompe sulla scena italiana proprio mentre l’impianto delle politiche di coesione, così come è stato a suo tempo concepito, si scontra sempre di più con politiche ordinarie che tagliano fuori il Mezzogiorno. Nel settembre del 2014, un mese dopo l’avvio della discussione sulla riforma costituzionale, il Governo vara il decreto “Sblocca Italia”. Questo provvedimento appare un po’ come la legge-obiettivo che nel 2001, subito dopo la riforma del Titolo V, fu oggetto di molti contenziosi e di molte sentenze della Corte Costituzionale che portarono a modificare, con la legge n. 239/2004, il rapporto di sussidiarietà tra Stato e regioni. Nella prima stesura della legge “Sblocca Italia”, mentre è ancora vigente la norma costituzionale che definisce l’energia come materia concorrente, si prevede di riportare in capo al Governo e al Parlamento tutte le decisioni su questa materie. Lo “Sblocca Italia” nella sua prima formulazione anticipa, di fatto, il nuovo Titolo V immaginato da Renzi, e nella materia delle autorizzazioni per la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi gassosi (petrolio e gas), in mare e in terraferma, determina un vulnus fra lo Stato e le regioni, eliminando tutte le procedure partecipate attraverso le quali si sostanzia quel percorso di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Il che, quasi paradossalmente, nel momento di crisi più forte per le regioni, riporta queste istituzioni al centro della scena politica nazionale. Perché proprio l’iniziativa delle regioni (quelle che impugnano lo “Sblocca Italia”, o quelle che con accenti diversi si battono perché le norme in questione vengano modificate in Parlamento) riporta al centro dell’attenzione i temi della sussidiarietà e del rapporto di leale collaborazione fra i poteri dello Stato che è a maggior ragione indispensabile quando si tratta di decidere sul futuro dei territori, sulle attività petrolifere o sull’ubicazione degli inceneritori.
È proprio qui, nel rapporto fra le istituzioni di prossimità, i territori, e temi sensibili quali la tutela dell’ambiente e della salute, che negli ultimi mesi le regioni (o alcune di esse) recuperano un protagonismo e un ruolo, contribuendo in maniera determinante alla modifica parlamentare dello “Sblocca Italia”. Modifiche (soprattutto quelle operate con l’approvazione della legge di stabilità 2016) che in qualche caso rendono però il provvedimento in questione ancora più contraddittorio e di difficile applicazione, portando dieci regioni a chiedere l’abrogazione di alcune norme attraverso il referendum.
Il resto è storia recente: dai pronunciamenti della Cassazione e della Consulta resta in vita un solo referendum, che riguarda il divieto delle attività petrolifere in mare entro le 12 miglia. Il Parlamento ha accettato di modificare la norma del codice dell’ambiente, che consentiva la conclusione dei procedimenti in corso, prevedendo, però, che i permessi e le concessioni già rilasciati non abbiano più scadenza e senza chiarire che i procedimenti in corso debbano ritenersi definitivamente chiusi e non solo sospesi. La Cassazione ha ammesso che la modifica del Parlamento non soddisfacesse la richiesta referendaria, e cioè che essa non corrisponde alle reali intenzioni dei promotori del referendum. La Corte costituzionale ha, quindi, dichiarato la legittimità della proposta di referendum. In caso di esito positivo del referendum, i permessi e le concessioni già rilasciati e relativi alle attività petrolifere ricadenti entro le 12 miglia avranno scadenza certa e cioè resteranno vigenti fino alla data prevista al momento del conferimento del titolo. Dall’eventuale abrogazione referendaria deriverà inoltre un vincolo per il legislatore, che non potrà rimuovere il divieto di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia, ma anche l’obbligo per la pubblica amministrazione (in questo caso il ministero dello Sviluppo economico) di chiudere definitivamente i procedimenti attualmente in corso, finalizzati al rilascio dei permessi e delle concessioni.
In buona sostanza, il sì al referendum significa dire basta alle trivelle nelle acque territoriali, che è il primo obiettivo comune delle nove regioni che hanno promosso il referendum, e con motivazioni anche non distanti dalle realtà associative e culturali, dalle imprese della green economy, del turismo, dell’agricoltura e del settore del mare. Di questo, anche a causa dei conflitti fra Paesi produttori e delle manovre speculative che mantengono basso il prezzo del petrolio, si sono accorte le stesse compagnie petrolifere che nelle ultime settimane hanno rinunciato a diverse concessioni già rilasciate al di fuori delle acque territoriali, mentre la Croazia ha recentemente cambiato il proprio orientamento sulla questione, decidendo di non rilasciare autorizzazioni per le attività petrolifere off–shore.
Ma al di là della specifica dimensione tematica del referendum (trivelle nelle acque territoriali) è evidente il duplice significato politico che la consultazione del 17 aprile porta con sé. Da un lato si tratta di stabilire come l’Italia uscirà dal bivio di fronte al quale si trova sul tema delle estrazioni petrolifere: se, cioè, questa attività deve essere regolata solo dalle convenienze dei mercati e degli investimenti di lungo termine dei produttori (cosa che sembrerebbe emergere dal profilo delle norme approvate dal Governo e dal Parlamento nell’ultimo periodo) oppure se questa attività deve fare i conti con i territori (salute dei cittadini, ambiente) e quindi va regolata in base ai “limiti di sostenibilità”. Dall’altro lato c’è, tutto intero, il tema più generale del rapporto tra Stato e regioni e del rapporto fra lo Stato e il Sud, che è una grande questione nazionale. Il referendum del 17 aprile, da questo punto di vista, contribuisce a riaprire una discussione che sembrava chiusa, riproponendo il tema della leale collaborazione fra le istituzioni e del ruolo delle istituzioni di prossimità, che devono avere voce in capitolo nelle scelte che riguardano i territori amministrati. Si dirà: ma dietro l’angolo c’è il referendum confermativo della riforma del Titolo V, che riaccentra tutti i poteri. E le regioni? Risposta: una affermazione del Sì il 17 aprile, oltre a contribuire alla tutela del mare, e quindi anche della pesca e delle attività turistiche italiane,contribuirebbe a rafforzare il ruolo delle regioni e degli enti locali a tutela dei territori.
Pietro Lacorazza*
* Presidente del Consiglio regionale della Basilicata.