Perché la pioggia non è salata? La rivoluzione di Solwa per la produzione di acqua potabile
“L’acqua del mare evapora, si trasforma in vapore, sale, diventa una nuvola. Poi, quando trova una corrente di aria fredda, si fa condensa e torna allo stato liquido. Ma perché la pioggia non è salata? Io non me lo ero mai chiesto. Mio fratello sì, e da lì è nata Solwa”.
Davide Franceschetti, responsabile Relazioni Internazionali di Solwa, racconta così la nascita di una tecnologia per la potabilizzazione dell’acqua alimentata dal calore solare, giunta alla fine della fase sperimentale, ma già inserita dalle Naizoni Unite, nel 2010, tra le “Innovazioni per lo sviluppo dell’umanità” del programma IDEASS. Un riconoscimento a cui ne sono seguiti molti altri: la startup, oggi ospitata nel Parco Scientifico Tecnologico Veneziano Vegapark, ha vinto il premio Working Capital 2011 e, poco dopo, è stata selezionata come Innovazione Italiana dell’Anno dal prestigioso MIT di Boston. Accanto a numerose menzioni speciali e inviti a diverse fiere, da Smau a Ecomondo, a novembre scorso è arrivato il Premio Marzotto: “Siamo stati selezionati come Impresa del Futuro. Dal premio, pari a 250.000 euro, sono venuti i soldi per andare avanti, che ci hanno permesso anche di fare le prime assunzioni”, continua Davide.
A colpire le giurie di così tanti premi non è stata solo l’idea brillante, nata dalla tesi di laurea sperimentale di Paolo, ma anche le sue enormi potenzialità: la disponibilità di acqua potabile, insieme all’approvvigionamento alimentare, è uno dei temi cruciali che il pianeta dovrà affrontare nei prossimi anni, e in questo senso Solwa rappresenterebbe una piccola rivoluzione. “E’ un sistema molto semplice, che non necessita di manutenzione, e che si basa su un processo banale. Molto diverso dai sistemi di depurazione che necessitano di membrane, elettricità, combustibili fossili”. Solwa è infatti “una piccola serra in cui viene immessa acqua che, con il calore del sole, evapora. Il vapore viene raccolto in un tubo e fatto incontrare con l’aria fredda prodotta da una piccola ventola alimentata a pannelli solari. In questo modo, si condensa e torna allo stato liquido, mentre gli inquinanti o il sale vengono scartati”.
Con questo processo è possibile depurare acqua contaminata da diversi tipi di sostanze tossiche: “Tutto ciò che ha un peso specifico maggiore dell’acqua non evapora. Rimangono fuori solo l’alcol, o la benzina”. Un sistema utilizzabile anche nei villaggi isolati, non connessi alla rete elettrica, provvedendo al fabbisogno idrico familiare: “In Africa un impianto di un metro quadrato è in grado di produrre circa 10 litri al giorno, rispondendo a un problema essenziale: ogni quattro minuti, infatti, nel mondo muore un bambino. Non per la sete, ma per le malattie che l’acqua non potabile gli provoca”. In collaborazione con alcune Ong, Solwa ha già fatto sperimentazioni in Perù, Burkina Faso e Palestina, mentre a Roma si sta testando la tecnologia “per desalinizzare l’acqua del mare, in modo da renderla utilizzabile per irrigare le coltivazioni di ortaggi nelle serre. “Proprio con questa applicazione stiamo puntando anche alle isole, dove non c’è acqua potabile perché le falde sono completamente saline. L’acqua del mare è infinita e, anche in periodi di siccità, sarà una delle risorse che in futuro potrà essere utilizzata”.
La società è nata ufficialmente a gennaio 2012 da sei soci under 35, con un’idea precisa in testa: “Non volevamo solo sviluppare la tecnologia, ma dare un’opportunità di sviluppo locale a tanti Paesi del Sud del mondo. Non siamo per il “vendi e scappa”, ma vorremmo piuttosto creare piccole officine di imprenditori locali che diano lavoro alla popolazione e si occupino della produzione e distribuzione degli impianti sul territorio circostante”.
E mentre tra pochi mesi, con la fine della fase sperimentale, inizierà la commercializzazione, da Solwa, con una specie di effetto a catena, è nato Drywa, un sistema basato sempre su serre che ha però, in questo caso, lo scopo di essiccare fanghi, facendo evaporare la parte liquida, per ridurne l’ingombro e facilitarne lo smaltimento. Ma la stessa tecnologia potrebbe essere utilizzata, per esempio, per l’essiccazione della frutta prodotta nei Paesi in via di sviluppo, alimentando anche qui un’economia locale che può portare benessere.
Veronica Ulivieri