Oceani sotto scacco. Drammatico allarme del WWF
Tra il 1970 e il 2012 la fauna marina è diminuita del 40%. Cioè, quasi la metà degli abitanti degli oceani in poco più di 40 anni è scomparsa.
A lanciare il drammatico allarme è il WWF nel rapporto dal titolo “Living Blue Planet“, il risultato di un lungo lavoro di monitoraggio su 1.234 specie. La grave compromissione dell’ecosistema degli oceani ha avuto un picco tra il 1970 e la prima metà degli anni ’80.
Il calo della popolazione di mammiferi, uccelli, rettili e pesci è drammaticamente peggiorato per diverse ragioni. Prima fra tutte la presenza umana, che diventa sempre più invasiva. Poi ci sono naturalmente i soliti noti. L’inquinamento, e i gas a effetto serra responsabili dell’acidificazione degli oceani e del riscaldamento dei mari. Un ruolo fondamentale nell’accelerazione del fenomeno è giocato dalla pesca non sostenibile, bensì condotta in una maniera intensiva e predatoria che non lascia alla fauna marina né tempo né spazio per riprodursi. La richiesta di pesce è aumentata in maniera esponenziale. Il consumo medio pro capite tra il 1970 e il 2012 è passato da una media di 9,9 chili a 19,2 chili. Nel sovrasfruttato Mediterraneo ogni anno vengono pescati 1,5 milioni di tonnellate di pesce, con il 85% degli stock sovrapescati e l’89% esauriti.
A questi fattori si devono aggiungere le attività delle industrie estrattive e la cementificazione dei litorali. A ben vedere tutto è riconducibile all’azione scellerata dell’uomo sull’ambiente.
Un allarme ancora più grave riguarda le barriere coralline che, sempre a causa del nostro comportamento, secondo il WWF, entro il 2050 potrebbero scomparire del tutto a causa del global warming. Questo rappresenta un dato di gravità assoluta. Lungi dall’essere un divertimento per turisti in vacanza in qualche paradiso tropicale, questo habitat naturale – definito come le foreste tropicali degli oceani – ospita oltre il 25% di tutte le specie marine. Ma non è tutto. Sono circa 850 milioni le persone che ne traggono direttamente beneficio a livello economico, sociale o culturale. “Un’estinzione catastrofica dalla drammatiche conseguenze per tutte le comunità interessate”, dice il WWF. “Che mina la sostenibilità dei mezzi di sussistenza di molte persone, specialmente nelle comunità costiere” continua l’associazione.
Per quanto riguarda l’inquinamento da rifiuti, invece, secondo uno studio condotto dall’Università del Queensland e pubblicato su Global Change Biology nel mondo oltre la metà delle tartarughe marine ha ingerito plastica o altri scarti prodotti dall’uomo. Secondo le stime ogni anno finiscono negli oceani tra le 4 e le 12 tonnellate di plastica. Tra le acque più pericolose ci sono le coste orientali dell’Australia e del Nord America, del Sud-Est asiatico, dell’Africa meridionale, e delle Hawaii per una combinazione di carichi di detriti e un’alta diversità delle specie. Gli studiosi hanno incrociato i dati sull’accumulo di plastica e rifiuti nei mari con le mappe degli habitat di sei tipi di tartarughe diverse. È bene ricordare inoltre, le deleterie conseguenze della plastica negli oceani anche sugli uccelli marini. Entro il 2050 il 99% di questi animali avrà ingoiato questa sostanza.
Una prospettiva completa che dona l’idea della situazione delicata in cui versano i nostri mari.
Rimanendo in tema, sul fronte delle istituzione europee sono state appena inserite in Gazzetta ufficiale le nuove linee guida sui sistemi di depurazione dei gas di scarico. Si tratta di emendamenti alla convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (MARPOL).
Sempre in ambito di emissioni, l’UE ha annunciato che si presenterà alla conferenza Onu sul clima di Parigi con il fine di arrivare a un accordo globale che preveda il picco massimo delle emissioni per il 2020 “al più tardi”, un taglio del 50% entro il 2050 rispetto al 1990 e quasi zero emissioni entro il 2100. Questo è il piano messo a punto dai ministri dell’ambiente dei 28 Paesi Membri. I quali hanno fatto sapere che l’UE si batterà per “un meccanismo dinamico di revisione” ogni cinque anni, in cui ciascun Paese renderà conto di quanto raggiunto, non potrà diminuire gli impegni presi, ma in caso sottometterne di nuovi. Un modo di rendere vincolanti, credibili e precisi gli impegni presi in materia.
Beatrice Credi