Nuovi mondi: Lindo Ferretti e la “Libera Associazione di Uomini e Cavalli”
Ha cantato il “socialismo realizzato” emiliano-romagnolo e il mondo della “cortina di ferro” fino al 1989 con i CCCP. Caduto il muro di Berlino Giovanni Lindo Ferretti, natali a Cerreto Alpi (RE) il 9 settembre 1953, chiude il progetto politico, musicale e culturale e fonda i CSI. Ancora musica punk ed originalità nei testi che conquistano fette di estimatori più consistenti di quelle dei circuiti alternativi. Negli anni sperimenta nuove sonorità, fonda i PRG (Per Grazia Ricevuta) si dedica a lavori da solista, scrive libri e fa teatro. Politicamente fa discutere perché dalla gioventù in Lotta Continua passa a posizioni vicine al Centrodestra. Spostamento di linea nonostante conservi una filosofia orientata al collettivismo e coltivi la critica alla globalizzazione in nome delle tradizioni del suo Appennino, delle sue montagne. E di montagna ha parlato con noi in occasione del Festival “Nuovi Mondi” 2017.
D) Lindo, come mai qui, in un festival di montagna di un piccolo paesino del cuneese come Valloriate, dove abitano 131 abitanti?
R) Sono qui per un insieme di fattori causali, come spesso succede e sui quali spesso si costruiscono le cose importanti della vita. Mi ha convinto Giovanni Teneggi, un dirigente di Confcooperative – l’unica realtà sociale e pubblica dell’Appennino Reggiano - che segue tutte le vicissitudini della montagna. Mi ha detto che ero stato invitato a questo festival di cinema, il più piccolo festival di cinema di montagna del mondo. Io però non mi muovo perché non guido la macchina, e gli ho risposto: “vengo con te così chiacchieriamo”.
D) Questione di destino dunque, come il titolo del tuo intervento: “La montagna come destino”….
R) Mi avevano proposto un altro titolo, neanche lo ricordo, in cui non mi riconoscevo…
D) Questo invece sintetizza la tua storia ovvero il ritorno al luogo originario, alla natura dell’Appenino…
R) Io abito in montagna, sono tornato a viverci nel momento in cui sono finiti i CCCP e con i soldi che ci siamo divisi (2 milioni e 500 mila lire a testa), ho iniziato a fare dei lavori in casa.
D) Una scelta storica per la tua vita, in un anno storico…
R) Era il 1989, la caduta del muro, il crollo dell’Urss, la fine di un secolo breve e di un mondo. Il ritorno in montagna era una cosa che covavo da tempo, il destino della mia vita: da quando sono stato portato via da quella casa, a 6 anni con l’inizio delle scuole elementari. Mi sono reso conto che ho vissuto per la gran parte della mia vita in casa d’altri, una mancanza cui non riuscivo a dare il nome. Il problema era riappropriarmi della mia storia, generazione dopo generazione.
D) Sui monti si può vivere in molti modi: chi ci va di passaggio e chi è fortemente connesso al luogo…
R) Per tutto il tempo dei CSI ho vissuto in montagna in modo molto moderno, facevo il pendolare con i palcoscenici in giro per l’Italia, anche se avevo già ripreso residenza nella vecchia casa di famiglia. Con la fine di quella esperienza avevo bisogno di fermarmi a casa e la mia vita si è radicalmente modificata: oggi sono un arcaico montanaro, un sopravvissuto.
D) E fai un lavoro molto legato ai ritmi della natura, giusto?
R) Da tre anni allevo cavalli e ho costituito una fondazione, per necessità, non perché volessi farlo ma perché tutte le cose in questo Paese devono essere burocraticamente perfette. Noi intendevamo invece una libera associazione di uomini e cavalli, ma non era plausibile sopravvivere senza la registrazione. Allevo cavalli italiani e faccio un teatro barbarico – un’idea di cui non sono ancora soddisfatto – dove racconto una storia e un mondo che sta finendo irrimediabilmente nello sgretolarsi di tutti i rapporti sociali e umani propri del nostro tempo…
D) Il frutto della modernizzazione?
R) Sono il testimone di un passaggio di epoca, di passaggio di ere. La mia testimonianza di vita in montagna ha senso rispetto alla mia storia personale, alla mia comunità, a cui sono molto legato, alla cooperativa fatta dei giovani del mio paese dove vivono 60 anime, un borgo dell’Alta Valle del Secchia.
D) Anche in quei territori si assiste a forti modifiche, non è vero?
R) Le cose che stanno morendo hanno a disposizione una lunga decadenza perché si è fatto come si è sempre fatto e se devi reinventarti diventa difficile. Siamo un Comune con un territorio enorme, pochissimo abitato, con stragrande maggioranza di abitanti vecchi ed anziani. C’è una specie di dimensione invasiva nel mese estivo dove tutti i problemi diventano problemi per eccesso, rispetto ai problemi per mancanza, ma su questa stagione si costruisce il 70% dell’economia di un anno, non bisogna essere molto schizzinosi. La montagna è una dimensione abbandonata della società…
D) Questo abitare in alto determina delle appartenenze, degli status antropologici, che vanno al di là dei confini geografici?
R) Come essere umano mi sento montano, più simile ai montanari della Georgia – protagonisti di un film in programma – più di quanto mi senta vicino ai cittadini di Reggio Emilia, che è la mia città. E’ una opzione originaria dell’essere umano. Io quando alzo lo sguardo e vedo intorno a me le montagne mi sento bene, se alzo lo sguardo e sono in città (che ha tanti pregi e non demonizzo) sento però che non è casa mia. Per sentirmi a casa, ho bisogno di essere in montagna. Ho sempre saputo che era la mia casa, anche se per gran parte della mia vita non sapevo che era il motivo e il problema della mia insoddisfazione di fondo. Anche se per certi versi ho vissuto una vita privilegiata, che mi sono costruito con ingegno e dedizione, non basta per essere soddisfati. Almeno, a me non è bastato. C’era una mancanza profonda e recuperare il passato è stato indispensabile.
D) Un passato vicino alla natura, alle tradizioni…
R) Sono la prima generazione – nella mia famiglia, nella mia comunità e nelle nostre montagne – cresciuta nei banchi della scuola e lontano dalla montagna, lontano dai pascoli. Per i nostri genitori e per noi era la parte positiva del progresso, ovvero abbandonare la fatica, il freddo ma non la fame. Nessuno nelle nostre montagne ha patito la fame, nei nostri paesi si sono costruite case con criterio, che hanno retto i secoli. Abbiamo conosciuto fame e miseria quando si è sgretolata la famiglia ed il mondo tradizionale e non si è più garantito un reddito minimo necessario alla sopravvivenza fisica. Quando si parla di civiltà tradizionale dei monti come civiltà di penuria e di miseria si dice una falsità!
D) La dimensione del ritorno come l’hai vissuta?
R) Quando sono tornato a vivere a casa ero un punkettone, ma nessuno dei miei vecchi, nessuno dei miei vicini di casa ha mai trovato questo problematico e mi ha fatto molto piacere. C’era un riconoscimento di una legittimità che stava nei fatti, sono stato eletto anche nel consiglio pastorale del mio paese. L’ho accettato sorridendo di cuore, tutto immaginavo ma non di finire nel consiglio pastorale! Quando sono nato però il paese aveva 600 abitanti con tre bande di bambini che combattevano tra loro, ora siamo 60…
Gian Basilio Nieddu