“Natura in bancarotta”: serve una nuova contabilità per il pianeta
In “Natura in bancarotta“, da poco pubblicato in Italia da edizioni Ambiente, gli autori Johan Rockström e Anders Wijkman individuano i nove sistemi che consentono al nostro pianeta di funzionare e sostentarci, e per ognuno propongono un “confine” da non superare. La pressione delle attività umane sul nostro pianeta ha infatti raggiunto un’intensità tale da rendere possibili cambiamenti ambientali improvvisi e potenzialmente catastrofici. Per evitarli, il libro propone un nuovo approccio alla sostenibilità. Individuati e presentati per la prima volta nel 2009, i “confini planetari” sono subito diventati un elemento centrale nella definizione delle proposte più avanzate in tema di sostenibilità. E hanno sollevato anche interessanti critiche, da cui è scaturito un importante dibattito, testimoniato da questo volume. Servono modelli di business alternativi e un’economia circolare basata su riuso, ricondizionamento e riciclo. In numerosi settori occorre passare dalla vendita di prodotti all’offerta di servizi. Ci sono molti modi per avviare la transizione globale verso la sostenibilità, ma queste azioni, da sole, non bastano. Il volume rappresenta il 33esimo rapporto al Club di Roma: è stato sottoposto a una peer review da parte del Club e dei suoi esperti, a garanzia del suo rigore scientifico e della sua portata innovativa, oltre che del fatto che dia un importante contributo al dibattito sulla situazione attuale dell’umanità. A partireda I limiti dello sviluppo, il primo Rapporto al Club, 33 pubblicazioni hanno ricevuto questo imprimatur. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi l’inizio del primo capitolo, intitolato “Lo spazio ambientale è limitato”.
Anche se abbiamo dedicato parecchi capitoli all’argomento, questo non è un libro sul cambiamento climatico. Abbiamo invece esaminato le relazioni tra il benessere umano e la natura, e le minacce che stiamo arrecando a quei sistemi naturali complessi che sono la base della vita sulla Terra.
Con questo libro ci siamo dati l’obiettivo di modificare la prospettiva tradizionale, secondo cui lo sviluppo sociale e l’ambiente sono fenomeni distinti e spesso in contraddizione fra di loro, per arrivare invece a considerare la biosfera e le risorse naturali come prerequisiti per la prosperità e lo sviluppo futuri. Questa posizione è molto comune tra gli studiosi di scienze naturali. Ma molte altre discipline hanno un approccio diverso e più limitato. I modelli economici, per esempio, si focalizzano principalmente sui rapporti tra produttori e consumatori. L’accesso all’energia e alle materie prime – per non parlare dei servizi degli ecosistemi – sono, più o meno, dati per scontati.
L’umanità deve fronteggiare una realtà critica. Molti studi scientifici indicano ormai con chiarezza che siamo prossimi a un punto di saturazione, oltre il quale la biosfera non potrà più gestire ulteriori stress. Stiamo già assistendo agli impatti che i cambiamenti ambientali globali hanno sulle economie regionali e locali. Ci siamo focalizzati sulla cultura e gli stili di vita e sui modi con cui abbiamo organizzato la nostra economia, perché sono queste le aree in cui devono avvenire i cambiamenti più importanti se vogliamo affrontare le minacce alla biosfera. Ogni giorno l’inquinamento, il degrado e la distruzione di specie e di ecosistemi e la rottura degli equilibri climatici aggravano gli impatti del nostro sistema di produzione e consumo sull’ambiente. Tutto ciò erode le basi della prosperità e dello sviluppo dell’umanità.
I media dedicano ampio spazio alla crisi finanziaria. Ma i ragionamenti su prestiti e debiti vanno ben oltre l’economia monetaria. Il degrado degli ecosistemi, la perdita di biodiversità e l’instabilità climatica sono serie ipoteche sul futuro, analoghe ai debiti finanziari. Ci rifiutiamo di considerare le strette connessioni tra l’economia monetaria e l’economia della natura, e ci concentriamo esclusivamente sul sistema finanziario. I difetti che abbiamo individuato nella relazione tra l’umanità e l’ambiente ci hanno portato a discutere i modi in cui sono stati organizzati il sistema economico e quelli della ricerca e dell’istruzione. In più, ci siamo chiesti se, nel lungo periodo, gli odierni sistemi politici sono effettivamente in grado di affrontare le sfide poste dalla globalizzazione, dalla crescita della popolazione, dal cambiamento climatico e dal consumo eccessivo delle risorse, finite o rinnovabili che siano.
La terra ha bisogno di una nuova contabilità
Abbiamo bisogno di un bilancio per il nostro pianeta. Negli anni più recenti si sono infatti moltiplicati i segnali che dimostrano come i nostri stili di vita e di consumo siano in rotta di collisione con la natura. Nel 2010 la Russia è stata colpita da un’ondata di calore da record, che ha causato incendi colossali.* Le alluvioni in Pakistan hanno sommerso il 20% del paese, e le già precarie condizioni di vita di milioni di persone si sono trasformate in un vero e proprio incubo. Iceberg grandi come Manhattan si staccano dai ghiacciai ai Poli. In Australia,sette anni di siccità sono stati seguiti da gravi inondazioni. Negli Stati Uniti,tra il 2011 e il 2012 la siccità e le inondazioni hanno raggiunto livelli record.Per chi conosce il lavoro dell’IPCC, il panel delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, questi eventi estremi non rappresentano una sorpresa. Ciò che è successo tra il 2010 e il 2012 (e che è proseguito anche nel 2013, ndC) è un’anticipazione di quello che potrebbe diventare la regola in futuro.
Le minacce agli ecosistemi e alla biodiversità sono ugualmente gravi. Anche se negli ultimi anni la deforestazione nelle aree tropicali è leggermente rallentata,si stima che ogni anno si perdono ancora 13 milioni di ettari di foreste. Lo sfruttamento eccessivo delle zone di pesca continua senza sosta in molte areemarine. In alcune regioni del mondo va diffondendosi la carenza di acqua dolce. Nel complesso, secondo il MEA (Millennium Ecosystem Assessment, rapporto pubblicato nel 2005 dalle Nazioni Unite) due terzi dei più importanti ecosistemi globali sono sovrasfruttati.
La Conferenza delle Nazioni Unite sulla diversità biologica tenutasi a Nagoya nell’ottobre del 2010 ha rappresentato un passo nella giusta direzione: si è infatti deciso di proteggere gli ecosistemi unici in mare e sulla terraferma. Il problema è come conciliare questa decisione con l’incremento della popolazione e con l’espansione delle economie emergenti.
Quando gli individui vivono al di sopra dei propri mezzi, è facile indovinare che cosa può succedere loro. Il patrimonio smette di crescere, i debiti aumentano: dopo qualche tempo le linee di credito vengono chiuse e alla fine si arriva al fallimento. I buchi nel bilancio della natura sono più difficili da capire. Una delle ragioni è che molti individui non sperimentano direttamente il degrado degli ecosistemi. La maggior parte delle persone vive in città, e la gran parte diloro compra il cibo al supermercato, senza chiedersi da dove arriva o con qualicosti per gli ecosistemi è stato prodotto.
Un’altra ragione è l’inadeguatezza dei nostri sistemi di contabilizzazione. Quando una foresta viene abbattuta, o quando gli oceani vengono svuotati dei pesci, le statistiche sul Pil registrano un segno positivo. Il fatto che le foreste e gli stock ittici abbiano sofferto di una perdita di valore – perdita che sarà impossibile da recuperare – non compare in nessun bilancio. E questo vale anche pergli ecosistemi che sono, probabilmente, sul punto di passare una soglia critica,con conseguenze disastrose per i bilanci nazionali. Tra gli esempi di queste soglie critiche possiamo ricordare la possibile scomparsa dei mari interni (come il Mar Baltico), il collasso della Foresta amazzonica a causa delle siccità e il cambiamento del regime dei monsoni tropicali.
Il fatto è che non disponiamo di una contabilità adeguata per il pianeta. I bilanci nazionali sono pensati per dare conto principalmente della produzione aggregata del paese in termini di Pil. A questo si aggiunge la stima del Prodotto interno netto, che tiene conto dell’usura del capitale fisico – principalmente macchinari ed edifici – che viene poi sottratta al Pil. Non esiste una misura del degrado del capitale naturale, che si tratti di terreni agricoli, foreste tropicali,riserve di acqua dolce, stock ittici o diversità biologica. Inoltre, le conoscenze e il controllo che abbiamo sulla disponibilità di risorse finite come il petrolio, il fosforo e alcuni metalli sono ridotte.
I miglioramenti negli standard di vita registrati in alcuni paesi nel corso del XX secolo sono da ascrivere alla disponibilità di petrolio a basso prezzo. Molti paesi e molte imprese sembrano ragionare come se il petrolio continuerà a sgorgare dal sottosuolo ancora a lungo. In realtà, sono numerosi i segnali che ci dicono che l’era del petrolio a buon mercato è finita. Molti studi concordano nel ritenere che la produzione di petrolio si stabilizzerà e poi inizierà a declinare. Quando succederà, poche nazioni saranno davvero pronte. Il prezzo del petrolio potrebbe schizzare alle stelle. Molti paesi poveri, che già faticano a pagare le proprie importazioni di greggio, potrebbero essere costretti a razionare i combustibili. Già oggi, in Africa, i costi delle importazioni energetiche superano l’ammontare complessivo dei fondi per lo sviluppo. Gli impatti saranno ancora più pesanti per quei settori, come quello dei trasporti e quello agricolo, per cui non ci sono sostituti. Presi tutti assieme, questi elementi costituiscono una seria minaccia all’economia globale.
* Secondo i dati del GISS, Goddard Institute for Space Studies, della NASA, dall’analisi delle temperature estive del 2010 è emerso come globalmente il periodo da giugno ad agosto di quell’anno sia stato la quarta estate più calda a livello globale degli ultimi oltre 130 anni, ossia da quando sono disponibili registrazioni strumentali regolari su scala globale. L’ondata di calore in Russia è stata altamente inusuale, e la sua intensità ha superato qualunque record di temperatura dagli anni Ottanta dell’Ottocento,da quando cioè sono disponibili registrazioni globali. Alcuni meteorologi e paleoclimatologi russi hanno sostenuto che il paese non ha mai sperimentato una simile ondata di calore negli ultimi 1.000 anni o che simili eventi si verificano con una frequenza di una volta ogni 15.000 anni, ndC.
Johan Rockström* e Anders Wijkman*
* Professore di Gestione delle risorse naturali presso l’Università di Stoccolma, è direttore esecutivo presso lo Stockholm Environment Institute e lo Stockholm Resilience Centre. Scienziato riconosciuto a livello internazionale sui temi della sostenibilità globale, ha contribuito all’elaborazione del concetto di “confini planetari”.
** Senior advisor presso lo Stockholm Environment Institute e co-presidente del Club di Roma. E’ stato membro del Parlamento europeo, assistente del Segretario generale delle Nazioni Unite, Segretario generale della Società svedese per la conservazione della natura e Segretario generale della Croce Rossa svedese. È autore di diversi libri.