Microalghe, verso la terza generazione di biocarburanti
Il carburante del futuro arriverà dalle alghe? Fantascienza o nuova frontiera delle energie rinnovabili, a questa domanda cerca di dare risposta un progetto di cooperazione transfrontaliera nel Mediterraneo finanziato dall’UE. Si chiama MED-ALGAE, ed è coordinato dall’Istituto di Ricerca per l’Agricoltura di Cipro in collaborazione con l’agenzia dell’energia dell’Isola. Il consorzio è composto da dodici organizzazioni pubbliche e private di sei differenti Paesi: Cipro, Grecia, Italia, Malta, Libano ed Egitto. E prevede la realizzazione di cinque impianti pilota.
Parlare di alghe, tuttavia, è generico in quanto esse si presentano in forme molto differenti. La loro biodiversità è davvero impressionante, si stima che ci siano tra le 200 e le 800 mila specie e che solo 35mila siano state descritte. Le microalghe destinate alla produzione di biocarburanti sono microrganismi che vivono singolarmente o in colonie e che – come spiega l’Agenzia nazionale ENEA – sono in grado di adattarsi a diverse condizioni ambientali. Ciò che le rende una valida alternativa al petrolio ed ad altre forme di energia pulita è il fatto che la performance del fitoplancton è dieci volte maggiore rispetto ai biocarburanti tradizionali di prima generazione, come l’olio di colza o di palma. A differenza dei biocombustibili ricavati da piante edibili, poi, non hanno bisogno di terreno e non sono in competizione con colture alimentari.
Il principale vantaggio è proprio questo: il loro limitato impatto ambientale, che esclude un’agricoltura intensiva o l’inquinamento delle falde acquifere. Possono, infatti, a crescere anche in climi caldi e in acqua salata, senza intaccare le risorse di quella dolce nelle zone dove quest’ultima è limitata. Riescono ad assorbire CO2 sia dall’aria atmosferica sia nel caso in cui il gas venga inserito all’interno della coltura trasformandolo in materia organica. La loro attività fotosintetica, infatti, è fondamentale per la vita sulla Terra, in quanto si stima che producano dal 30 al 50% dell’ossigeno in atmosfera assorbendo contemporaneamente anidride carbonica per potere crescere e sintetizzare nuova sostanza organica (biomassa) attraverso una serie di percorsi metabolici che possono condurre a diversi composti di accumulo energetico nella cellula microalgale, tra cui riveste particolare interesse il bioolio una sostanza oleosa con alta densità energetica che è possibile impiegare oltre che per la produzione di biodiesel, anche direttamente per l’alimentazione di generatori elettrici.
Per quanto riguarda le modalità di coltivazione, si va dalle colture in laboratorio, che consentono principalmente la realizzazione della ricerca di base per definire le proprietà funzionali delle alghe, alle colture massive in vasche o in veri e propri bacini di crescita. Tuttavia, oggi, la gran parte delle produzione mondiale avviene in vasche all’aperto (open ponds). Vale la pena ricordare che esistono anche contenitori chiusi detti “fotobioreattori” ai quali si associano, però, alti costi di gestione.
Le microalghe possono, quindi, essere considerate a pieno titolo una coltura energetica di seconda generazione, capace di evitare impatti dannosi sul mercato agroalimentare e sulla biodiversità terrestre anche perché facili da coltivare anche in terreni scarsamente produttivi altrimenti inutilizzabili, come le zone costiere aride e le aree paludose. Per la loro crescita si potrebbero, per esempio, sfruttare acque eutrofiche, cioè ricche di sali nutrienti di origine agricola o civile, ottenendo anche la loro depurazione.
Nonostante questi punti di forza rimangono, tuttavia, ancora degli ostacoli all’espansione della produzione di carburante da microalghe, rappresentati soprattutto dalla necessità di impiegare elevati capitali d’investimento. Per ora questa tecnologia è sviluppata solo in impianti pilota – costituiti da vasche o fotobioreattori – con alti costi e consumo di energia. Anche se diverse analisi prevedono il loro abbattimento con il progresso tecnologico e il miglioramento della resa di questi microrganismi. All’interno del processo, una delle fasi più delicate e costose è la separazione della biomassa dall’ambiente acquoso in cui cresce. Di fatto, è uno dei maggiori impedimenti all’ampia diffusione delle colture microalgali su scala commerciale, specialmente a fini energetici. Qui entrerebbe in gioco l’ingegneria genetica che potrebbe contribuire alla riduzione dei costi attraverso l’incremento dell’efficienza fotosintetica e quindi del rendimento della biomassa, al miglioramento del tasso di crescita della stessa, all’aumento del contenuto in olio. È, inoltre, necessario individuare la tipologia di alga più adatta allo scopo, resistente e facile da coltivare; che assicuri quantità e qualità della materia prima attraverso tecnologie consolidate su larga scala per produzioni intensive di biomassa microalgale a basso costo.
I laboratori pilota e il centro regionale di produzione di Alessandria in Egitto sono impegnati a cercare le risposte proprio a queste sfide. Il progetto prevede, infatti, lo studio di tutte le fasi della produzione di biodiesel da microalghe, dal campionamento di acqua di mare o di acqua dolce, alla selezione degli organismi, passando anche per l’identificazione delle specie, la loro coltivazione, la raccolta e l’estrazione di biodiesel e la determinazione delle sue proprietà in conformità con lo standard EN14214.
La produzione di biocarburanti dalle alghe potrebbe, inoltre - secondo uno studio della società americana SBI dal titolo “Algae Biofuels Technologies – Global Market and Product Trends 2010-2015” – essere una scommessa vincente, diventando una soluzione economicamente percorribile, poiché nel mercato globale delle tecnologie per la produzione di biocarburanti da alghe si prevede una crescita media annua del 43,1%, che porterà il volume del mercato da 271 milioni di dollari nel 2010 a 1,6 miliardi di dollari nel 2015.
Beatrice Credi