“Manna e miele, ferro e fuoco”. Il patimento in natura secondo Giuseppina Torregrossa
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Manna e miele, ferro e fuoco”, di Giuseppina Torregrossa, edito da Mondadori (pag. 384 , 19.00 euro ).
Patimento, sostantivo maschile: stato di sofferenza fisica o morale. Dolore fisico intenso o grave tormento morale [lat. volg. patire, prima metà sec. XII].
Si tratta di un’esperienza, di uno stato comune ai tre regni, minerale, vegetale, animale, con conseguenze sorprendenti.
L’acqua, per esempio, ha memoria dei suoi patimenti. Grazie alle tecniche fotografiche messe a punto da Masaru Emoto si è potuto osservare che essa forma cristalli via via più armonici e simmetrici – dunque più belli – se esposta a vibrazioni positive come musica e preghiere, mentre assume forme caotiche e inquietanti se è accostata a fonti di energia negativa. E il corpo umano è fatto per almeno il settanta per cento di acqua…
Ma da secoli l’uomo ha imparato a utilizzare il patimento ai propri scopi. Lo ha fatto con le piante, con le api e con le donne, ma non sempre ha ottenuto i risultati che sperava.
Le piante, non tutti lo sanno, sono vanitose, adorano vestirsi di fiori colorati, si agghindano di foglie nuove quasi fossero gioielli. Festose intrecciano i rami e gareggiano per chi è la più bella. In condizioni ottimali esse continuano a germogliare e fiorire, mentre i loro frutti rimarranno piccoli e acerbi. L’uomo allora ha imparato che se le priva di terra e di acqua, costringendole al patimento, le piante, presaghe della morte, si abbandonano a una rigogliosa fruttificazione e assicurano in questo modo la sopravvivenza della specie.
Così anche per le api che vengono sottoposte a periodi di esposizione a temperature bassissime: riportate in condizioni climatiche favorevoli reagiscono alla sofferenza producendo incredibili quantità di miele.
Ogni donna sperimenta sulla propria pelle il patimento che può temporaneamente offuscare l’armonia delle sue fattezze, minare le sue certezze, farle dimenticare i suoi talenti. Ma il più delle volte la deprivazione può essere motore di una ricerca che la porta a scoprire il suo vero dono, e a dar vita ai suoi frutti migliori in piena libertà.
Ma voi, signori, state attenti a non far patire troppo la vostra compagna: perché poi fruttificherà, e tra i suoi frutti più dolci potrebbe scoprire quello proibito della libertà.
«Corri, Tanuzzo, corri. Vai da commare Finuzza, dicci che tua madre da un minuto a n’autru sgrava.» Tanuzzo, il figlio mezzano di Alfonso Gelardi u mannaluoro, partì a schioppo. Il cuore gli batteva forte, aveva ricevuto un incarico di grande responsabilità, e ne sentiva tutto il peso. Sebbene impaurito all’idea di affrontare da solo il buio e il freddo di quel pomeriggio invernale, Tanuzzo non se lo fece ripetere due volte, il padre aveva appena finito la frase che lui era già fuori dalla porta. Il paese deserto e spettrale lo ingoiò.
Nevicava a lassa e pigghia da tre giorni, fiocchi larghi come fazzoletti erano caduti dal cielo trasformando le trazzere in lunghi e scivolosi nastri dai bordi arricciati. Gli scarponi non avevano alcuna presa sulla discesa traslucida e il ragazzo allargava le braccia per dare stabilità al suo corpo fragile. Secco e ossuto, planava verso Palazzo Mocciaro come fosse un uccello azzoppato. La neve era arrivata prima del previsto, e già alla fine di ottobre le montagne erano tutte bianche. L’Etna in lontananza era un’enorme brioscia di panna. Il freddo di dicembre aveva fatto il resto, e per Santa Lucia le case di Gangi si intravedevano appena. Tutto il borgo aveva l’aspetto di un piccolo presepe allestito con grande anticipo sul Natale. Maricchia, la moglie del mannaluoro, era incinta per la quarta volta e, in completo accordo con le fasi della luna, così piena che scoppiava, aveva deciso di partorire proprio in quella notte di tormenta.
Il desiderio di una figlia femmina le trafiggeva il petto da tempo. Dopo tre maschi e con tutto quello che aveva passato per tirarli su, le sembrava di essere in credito con il Padreterno, al quale rivolgeva ogni sera preghiere e rimproveri: «Grazie per quello che mi hai dato, Signore, però un piccolo sforzo lo potresti fare. E dammela una figlia femmina, che ti costa? La commare Angelina ne ha tre, la gnà Carmela sette e io niente! O troppo a siccu o troppo a saccu. Vero è che non c’è giustizia… E amen» concludeva stizzita. A forza di recriminare però, quel Dio che lei accusava di essere ingiusto le aveva dato ascolto, e la notte del 19 marzo 1857 – stiamo parlando di nove mesi prima, perché tanto ci vuole per fare queste cose –mentre si dava al marito con una passione inusuale, era rimasta incinta.
Era la festa di San Giuseppe, la famiglia Gelardi aveva portato il pane a benedire e poi si erano fermati tutti insieme in parrocchia per la tradizionale cena con i poverelli. Pasta, lenticchie e baccalà fritto come vuole l’usanza gangitana. Sulla strada del ritorno Alfonso si era scaldato a vedere le forme di burro della moglie che gli camminava davanti. Vero è che aveva bevuto un poco di più, ma non si poteva certo dire che fosse ubriaco, semmai allegro, magari in trippu. O forse era stata colpa dell’imminente primavera che aveva già fatto fiorire i mandorli o della forzata astinenza che si protraeva dall’autunno. Il resto lo aveva fatto il profumo d’arancia che emanava la pelle bianca di Maricchia quando si scaldava per qualche voglia segreta.
Entrati a casa, i ragazzi infreddoliti e stanchi scivolarono nel sonno tra le lenzuola umide, mentre Alfonso, acchiappata la moglie per un braccio, l’aveva trascinata nella legnaia. Per l’urgenza del desiderio e il gelo della notte l’avevano fatto vestiti, togliendosi solo lo stretto necessario. Il mannaluoro era saltato addosso a Maricchia che, accantonata ogni forma di pudore, tra roncole, scalpelli, rasule e ciocchi di legno, si era data a lui cambiando le regole del gioco.
Le donne si modificano con gli anni e riservano ai loro compagni sorprese inimmaginabili, qualcuna anche gradita. Maricchia quella notte diede un corso nuovo alla sua vita matrimoniale e invece di accogliere inerte le effusioni del marito, si trasformò in un’amante piena di fantasia. Sedusse Alfonso con mille astuzie, lo blandì, lo stuzzicò con carezze e baci sfrontati. Infine si girò di spalle e, tirata su la gonna, volle fare l’amore come le pecore. Agli uomini piacciono le femmine audaci, magari anche un po’ porche, ma fuori di casa. ’Nzà ma’ parliamo delle loro mogli, le vicende si fanno trubbule. E infatti Alfonso, sorpreso e anche un po’ scandalizzato da quella proposta, fu sul punto di fallire. Ma quando il suo sguardo si posò sulla schiena di lei, fu lesto a riprendersi, ché la carne, si sa, è debole, specie quella dei maschi. Quei glutei candidi e tremolanti ebbero un effetto miracoloso sulla sua virilità indecisa. Alfonso recuperò potenza in pochi secondi e, proprio quando stava per avvitarsi su se stesso come un uccello centrato da un colpo di fionda, con un guizzo riprese quota e planò con entusiasmo. Si fermò solo quando le sue gambe iniziarono a tremare per lo sforzo prolungato. La gnà Maricchia tirò giù la gonna e rientrò in casa prima che qualcuno dei figli svegliandosi potesse accorgersi della loro assenza. Appena a letto, non mancò di ricordare al Padreterno il suo desiderio di una figlia femmina, quindi chiuse gli occhi soddisfatta. Dormì profondamente con un gran sorriso stampato sulla faccia e sognò distese di grano giallo da casa sua a Monte d’Oro.
Giuseppina Torregrossa*
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
*Giuseppina Torregrossa (Palermo, 1956) è madre di tre figli e vive tra la Sicilia e Roma, dove ha lavorato per più di vent’anni come ginecologa, occupandosi attivamente, tra le altre cose, della prevenzione e cura dei tumori al seno. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, ”L’assaggiatrice” (Iride – Rubbettino). Con il monologo teatrale ”Adele” (Borgia Editore) ha vinto nel 2008 il premio opera prima “Donne e teatro” di Roma. Da Mondadori ha pubblicato ”Il conto delle minne” (2009)