“Mancarsi”. Gli amori sfiorati di De Silva, in politica e nella vita
Caustico, lucido e diretto sulla radiografia dei sentimenti umani, figuriamoci sull’ostinata negligenza italiana verso per le questioni ambientali. Sempre rimandabili, sempre memo urgenti di altre. E’ un processo senza sconti quello che lo scrittore Diego de Silva fa alla politica italiana. Soprattutto a una parte politica, la sinistra, che avrebbe dovuto fare della salvaguardia dell’ambiente la sua bandiera. E che invece si è rivelata, a conti fatti, inadeguata e inerme.
D) De Silva, tutta questa responsabilità alla politica. Non crede nel ruolo della società civile? Oggi le battaglie ambientaliste, contro lo smog nelle città, in favore della ciclo-mobilità, piuttosto che della pulizia dei fiumi sono portate avanti principalmente dal mondo dell’associazionismo…
R) I singoli cittadini hanno ben poco potere. Possono indirizzare la loro vita o quella della comunità in cui vivono verso buone pratiche, ma spetta ai governi, alle amministrazioni, governare, appunto. Se viviamo in città come Roma, che non hanno ancora adottato la raccolta differenziata (cosa incredibile) o come Torino che hanno alti tassi di inquinamento, vorrà dire che chi le ha governate non ha mai investito adeguatamente in politiche “green”. Se ne sono fregati, per dirla schiettamente. I compiti mai svolti dalla politica sono sotto gli occhi di tutti.
D) Dovremmo scrollare le spalle, come insegna il personaggio della sua parente acquisita in uno dei suoi libri più celebri, “Mia suocera beve”?
R) La sinistra, che ho sempre votato e voto, avrebbe avuto gli argomenti per permeare se stessa di una cultura verde. Non è successo. Hanno delegato la materia a forze di nicchia, che hanno più o meno fallito la propria missione. E’ stato un accantonamento colpevole, quando c’erano tutte le condizioni per non farlo.
D) Lei non è un politico, ma se fosse Ministro dell’Ambiente quale sarebbe il primo decreto da attuare?
R) Domanda difficile. Investirei nel trasporto pubblico, per decongestionare dal traffico le città. Bisogna smettere di vedere scenari urbani in cui la gente viene inghiottita dalle auto, bisogna mettere a disposizione dei cittadini trasporti che riducano il più possibile l’impatto sull’ambiente.
D) Ha in mente qualche modello metropolitano in particolare?
R) In Italia francamente non ne vedo. Parigi e Londra hanno una viabilità pubblica all’altezza della loro popolazione. Se viaggi un po’, capisci i nostri tanti difetti, e quanta fatica facciamo a modificare la nostra cultura in una direzione di ecosostenibilità. Sono stato recentemente a Stoccolma: lì cammini per strada e trovi i bambini delle scuole che fanno lezione nei parchi pubblici al primo raggio di sole. Cominci a vedere cosa significa, nei fatti, fare politiche ambientaliste.
D) Lei dove vive?
R) A metà tra Salerno e Roma.
D) E dove sta meglio?
R) Nella Capitale abito a Monteverde, nel quartiere molto vivibile di Villa Pamphili, una zona diversa rispetto ad altre, in cui non ci passerei neanche cadavere. Mi sveglio la mattina con gli uccellini, eppure sono a Roma. E’ un angolo insostituibile e bellissimo. Certo, non parliamo dei trasporti, disastrosi. Comunque, le città ormai si somigliano tutte. Salerno è sicuramente più vivibile, piccola, concentrata, ben amministrata da anni a questa parte, non caotica e dispersiva. E’ un po’ provinciale, ha un’atavica difficoltà a scrostarsi di dosso vecchi difetti. Ma ogni città è a suo modo provinciale, è questione di ristrettezza del proprio spazio di vita. Sembrerà strano, ma facciamo benissimo la raccolta differenziata, credo al 70% di recupero dei materiali.
D) Non come nella sua Napoli, che fa da sfondo a molti romanzi…
R) A Salerno il problema dell’emergenza rifiuti non si è mai manifestato. Però, ambientalismo a parte, Napoli la adoro. E’ la più bella città del mondo, ogni volta che ci vai non te la scordi, non passa mai inosservata. E’ buffa, incantevole, baciata dal Vesuvio e dal mare, è una quinta teatrale enorme e come pochissime capitali al mondo ha conservato il proletario nella sua pancia, che crea una dicotomia marcata e continua tra classi privilegiate e meno abbienti. E’ un continuo imbastardimento, con la sua atmosfera estraniante, è imprendibile. Non disdegno, comunque, nemmeno le città grigie, come ha il Nord. La mestizia, la malinconia, non trovo che siano necessariamente controindicate per la felicità.
D) Dove scrive abitualmente? In città o al mare?
R) In ogni luogo, non fa differenza. Qualsiasi cosa, un oggetto inanimato, una voce mi danno ispirazione. Non penso che un campo mi genererebbe sensazione di pace. Richiamerebbe una serie di presenze, rimpianti. Allo stesso modo, non credo che lo spazio libero debba coincidere con la spensieratezza. O che camminare in una grande città provochi sensazioni ansiogene.
D) Il suo ultimo libro, “Mancarsi”, uscito per Einaudi da poche settimane è già un successo. E’ la storia di due ragazzi che frequentano lo stesso bistrot, anime gemelle dalla vita precedente complicata, in cerca di felicità, che non riescono a sfiorarsi. Una visione dell’amore piuttosto rinunciataria, non crede?
R) Amore non è altro che autoillusione, è il modo migliore di rovinarsi la vita. Sono partito da una spinta di entrambi i protagonisti di capitalizzare i propri errori, uscendo da rapporti sbagliati, mettendosi in attesi di un nuovo amore. Creando una disponibilità psicologica e sentimentale al nuovo, un’attesa fiduciosa ma illusoria, una speranza militante. Mi è sempre interessato il tema del disincontro, che non è certo nuovo in letteratura. Uno dei miei scrittori preferiti, Javier Marias, l’ha ampiamente trattato.
D) Il suo amore diventa più una frustrazione che un appagamento. Non crede?
R) La speranza è destinata a una frustrazione perenne. Ho volutamente chiuso il libro con un finale in levare, senza far capire che cosa succederà dopo l’incontro tanto atteso tra i due. Volevo che fosse il lettore a chiudere il romanzo, come una prova di immedesimazione nei protagonisti. Mi piace l’idea che il lettore faccia qualcosa per il libro.
Letizia Tortello