L’elogio del limite di Fabrizio Pistoni. Divagazioni sull’arte dello “stop bucolico”
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Elogio del limite” di Fabrizio Pistoni , edito da Ediciclo (pag. 160, 14,50 euro).
La prima salita è la sagra della concitazione. Teste basse e respiri affannati; le uniche persone con le quali riesco a parlare hanno più di sessant’anni: sono un bretone che mi racconta qualcosa su Tabarly, e Max che abita a Les Houches; parla con estrema calma, cercando di farlo in italiano, abitudine curiosa per un francese, ma nulla è casuale: Max è un figlio di emigrati e il suo sforzarsi di parlare una lingua che pratica sempre meno è un tributo alle origini; qualche anno fa la morte del padre fu lo spunto per tornare al focolare tante volte rievocato con nostalgia nelle storie che gli narravano quando era piccolo, ma il suo non fu un ritorno in auto attraverso il buco nella montagna, no… Il suo ritorno passava per le montagne, a piedi, e fu lo spunto per una nuova passione. È per questo che è qui ora, mi parla con trasporto dei momenti difficili di quel viaggio, del tempo infame che lo mise alla prova su alcuni colli canavesani… Canavesani?!
Scopro così di aver radici comuni con qualcuno che dieci minuti fa era solo uno dei tanti sconosciuti. Questa storia mi piace sempre di più. Gente con macchine fotografiche al posto degli occhi. E sopra l’elicottero continua a seguirci con il suo frastuono invadente, stregato com’è dall’inquadratura del serpentone che le truppe disegnano sul pendio. Poi il primo colle. Cambio di paesaggio. Vallone ampio, praterie con mucche da confezione di cioccolato svizzero, pendii dolci. Le truppe sono ormai sgranate. Silenzio. È come entrare in un nuovo mondo, anzi no, questo è sconosciuto perché troppo antico: tutto funziona solo in base a ciò che il corpo fa e chiede. Nessun condizionamento indotto dall’ambiente sociale; da quanto ne apprezzo l’assenza intuisco la misura in cui mi influenza la vita. La routine quotidiana è un ottimo digestivo, in breve fa accettare tutto, magari con l’aiuto di un paio di pastiglie: per mal di testa, stitichezza, pressione bassa o alta, impotenza, ansia, depressione e tutto il resto. La mente riprende a tritare pensieri, la lascio fare ma le impongo un solo divieto: nessuna domanda del genere “che ci faccio qui?”. Ho avuto un anno per pensarci e desiderare di esser dove mi trovo in questo momento. Qualunque sia il suo colore. Mi torna in mente la bellezza di quell’«osa fallire».
Intanto il paesaggio continua a cambiare e le prime nuvole anticipano la perturbazione prevista per questa notte. Pioverà? Così dicono, ma fatico a crederlo. La prima discesa finisce a La Thuile. Una faccia conosciuta mi chiede: «Come va?» e sembra una domanda nuova, senza nulla in comune con la stessa frase alla quale, in altri contesti, rispondo “bene” senza esitazione, a mo’ di riflesso condizionato, in quel mondo formale dove l’“abbastanza bene” è riservato ai momenti schifosi e la realtà la percepisci da un’espressione o dal tipo di silenzio che l’accompagna, non da ciò che la bocca dice. In ogni caso Faccia Conosciuta, come replica alla nota domanda, si becca un sorriso che nasce dal profondo e che per questo continuerò a ricordare. Il ristoro è frenetico, e io mi adeguo facendomi contagiare dalla fretta altrui. Temo che l’imitazione sia un istinto. È ridicolo il timore che perder un minuto possa risolvere in peggio l’esito della gara: le ore che mi separano dai primi hanno ben altra causa, eppure all’inizio ci casco sempre, sempre. E poi ci sono Steu e Ciolle davanti, non posso esser l’ultimo. Mentre mi ingozzo saluto Donato: è partito forte e mi descrive il ritmo furibondo dei primi, rafforzando la (s)gradevole sensazione di esser dietro a tutti.
Questo è il tratto dove incontrerò le mie due famiglie, quella creata, ovvero Mo (sta per Monica, Morosa o Moglie) con Teo e Luli, e quella d’origine: papà, Cillu (ho creduto di spartire le attenzioni dei miei con lui, in perenne competizione, fino a quando non ho realizzato che era così, da allora in poi è diventato mio fratello) e i suoi bimbi. Sette persone sono qui per vedermi, sette buone ragioni per non farmi aspettare troppo; non bastasse, mi toccherà pure la domanda molto candida di Luli e Teo: «Papi, ma quand’è che vinci?». Già… come glielo spiego che questo è un gioco dove anche arrivare ultimo ha un senso? La seconda salita è diversa dalla precedente fin dalla colonna sonora, adesso è quella da classica gita domenicale in montagna: i rumori del bosco con l’aggiunta di sempre più rari buongiorno, ’ngiorno, salve, bella giornata… Unica variazione sul tema un’impertinente matrona che se ne esce con uno stimolante: «Ma chi ve lo fa fare?». Touché. La domanda ha il potere di mandarmi in tilt, riesco solo a offrirle un sorriso ebete per l’incapacità di dire qualcosa di furbo. Ma non posso far finta di nulla e, visto che il viaggio questa volta è lungo, decido di fermarmi, faccio un po’ di allungamento e mi do un po’ di tempo.
L’ho scoperto da poco, lo chiamo “stop bucolico”: cerco un bel posto e mi stiro come un gatto; è come il reset per un computer e in allenamento funziona, in gara non so. Cinque minuti, poi riparto, perché la testa continua a ripetermi: “Sei in ritardo, i bimbi si sono stufati e stanno già tornando a Ivrea”; timore che il passar del tempo trasforma in certezza.Teo e Luli quando vengono con me iniziano a lagnarsi dopo tre minuti, quindi è impossibile che siano arrivati fin qua. Il ragionamento non fa una piega, ma quando finalmente li scorgo sono felice di dover ridimensionare il mio ruolo di padre carismatico: si sono fatti seicento metri di dislivello senza fiatare. Teo sorride e mi offre dei mirtilli, mentre Luli tace con sguardo interrogativo: so che vorrebbe chiedermi perché non stia vincendo, ma l’attesa troppo lunga le ha già fornito una risposta. Guardo Mo e la sento con me. E poi Cillu e mio padre, e i bimbi di Cillu: Miki e Nico. È Natale? Per me sì, è un momento che include tutti i valori laici di quella festa, e non occorre aggiunger altro, quando ci si avvicina ai simboli la retorica è pericolosa.
Ma una foto di quel momento la voglio e a scattarla sarà una gentilissima collega con pettorale. Tutti in posa dunque. Io sono l’unico con gli occhi chiusi e manca Nico, a tre anni due ore di salita lasciano il segno e dorme come sanno fare i bambini, nulla potrebbe svegliarlo. Un sonno privo dei patemi che la vita laggiù in basso implica. Tra un po’ sarà così anche per noi con il pettorale. In quanti siamo qui anche per questo? Chissà… ma non credo di esser l’unico.
Fabrizio Pistoni