“Le isole del tesoro”. Dove spariscono i soldi che potrebbero finanziare la green economy
Su gentile autorizzazione della casa editrice Feltrinelli pubblichiamo un estratto del recente saggio di Nicholas Shaxson, ”Le isole del tesoro. Viaggio nei paradisi fiscali dove è nascosto il tesoro della globalizzazione” (352 pagine, 19 euro), un “racconto d’ambiente” piuttosto inconsueto, che aiuta tuttavia a comprendere, in maniera estremamente semplice e documentata, dove finiscono i soldi che “mancano” agli Stati per finanziare adeguatamente una transizione alla green economy e perché alcune multinazionali sono incredibilmente avvantaggiate rispetto a produttori più piccoli, che investono nella riduzione del proprio impatto ambientale patendo costi più elevati e risultando, inevitabilmente, meno competitivi.
L‘attività offshore consiste fondamentalmente nel manipolare in modo artificiale le tracce cartacee dei movimenti finanziari transfrontalieri. Per farvi un’idea dell’artificiosità di questo processo, considerate le banane. Ogni casco di banane segue due percorsi per arrivare sulla tavola del consumatore britannico. Il primo vede protagonista un lavoratore honduregno impiegato da una multinazionale che raccoglie le banane, le imballa e le spedisce in Gran Bretagna. La multinazionale vende la frutta a una grande catena di supermercati, che le rivende al consumatore. Il secondo percorso – la traccia cartacea delle scritture contabili – è più tortuoso. Quando una banana honduregna viene venduta in Gran Bretagna, dove vengono generati i profitti finali da un punto di vista fiscale? In Honduras? Nel supermercato britannico? Nella sede centrale della multinazionale negli Stati Uniti? Qual è il contributo delle competenze manageriali, del marchio o dell’assicurazione ai profitti e ai costi? Nessuno lo sa per certo, così i contabili possono più o meno inventarselo. Per esempio, potrebbero consigliare alla compagnia bananiera di operare la sua rete di approvvigionamento dalle Isole Cayman e di ubicare i servizi finanziari in Lussemburgo. La multinazionale potrebbe stabilire il marchio societario in Irlanda, la divisione spedizioni nell’Isola di Man, le “competenze manageriali” a Jersey e la sua controllata assicurativa alle Bermuda.
Immaginiamo adesso che l’unità di servizi finanziari del Lussemburgo faccia un prestito alla consociata in Honduras, praticando un interesse di 20 milioni di dollari all’anno. La consociata honduregna porta questa somma in deduzione dai suoi ricavi locali, riducendo o azzerando completamente i profitti (e le imposte dovute). I 20 milioni di dollari di extra reddito della controllata del Lussemburgo, tuttavia, sono assoggettati soltanto all’aliquota d’imposta estremamente bassa di questo paradiso fiscale. Con un tocco di bacchetta magica, i contabili hanno fatto svanire un debito d’imposta consistente e hanno spostato i capitali all’estero.
La nostra compagnia bananiera ha utilizzato un comune stratagemma del sistema offshore, servendosi (o piuttosto abusando) dei cosiddetti “prezzi di trasferimento“. Secondo il senatore statunitense Carl Levin, il meccanismo dei prezzi di trasferimento è “l’equivalente societario dei conti segreti offshore dei singoli evasori fiscali“. Modificando artificialmente i prezzi applicati ai trasferimenti interni, le multinazionali possono trasferire i profitti verso un paradiso fiscale e i costi verso i paesi con una tassazione più elevata, dove possono essere dedotti dalla base imponibile. Nell’esempio delle banane, un paese povero viene privato delle sue entrate fiscali, che vengono dirottate verso un paese ricco. E i paesi poveri, con funzionari del fisco sottopagati, hanno sempre la peggio nei confronti dei contabili aggressivi e profumatamente remunerati delle multinazionali. Chi può dire se l’interesse dei 20 milioni di dollari sul prestito erogato dalla controllata in Lussemburgo corrisponda effettivamente al tasso di mercato? Spesso è difficile saperlo. Qualche volta i prezzi di trasferimento vengono manipolati in maniera così esagerata da perdere ogni parvenza di realismo: un chilogrammo di carta igienica proveniente dalla Cina è stato venduto a 4.121 dollari, un litro di succo di mela prodotto in Israele è stato prezzato a 2.052 dollari, e alcune penne a sfera spedite da Trinidad avevano un prezzo di 8.500 dollari ciascuna. Di solito gli esempi sono molto meno eclatanti, ma il totale cumulato in questi intrallazzi è enorme.
Circa i due terzi del commercio transfrontaliero a livello mondiale si svolgono all’interno di imprese multinazionali. Secondo le stime, i paesi in via di sviluppo perdono ogni anno 160 miliardi di dollari solo a causa della manipolazione dei prezzi degli scambi intrasocietari. Una somma di quell’importo investita nell’assistenza sanitaria, secondo Christian Aid, potrebbe salvare ogni giorno la vita di 1.000 bambini sotto i cinque anni d’età.
I lettori più smaliziati potrebbero comunque fare spallucce e raccontarsi che quella descritta è solo una delle tante spiacevoli conseguenze di vivere in un paese ricco. Ma chi fa mostra di un tale cinismo, sia pure in modo riluttante, è uno stupido, poiché non si rende conto che ne patisce le conseguenze come tutti gli altri. Il debito d’imposta della multinazionale viene tagliato non solo in Honduras, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. The Guardian ha scoperto che nel 2006 le tre maggiori compagnie bananiere mondiali, Del Monte, Dole e Chiquita, hanno realizzato un giro d’affari di quasi 400 milioni di sterline, ma hanno pagato complessivamente 128.000 sterline di tasse: meno di quanto guadagna un calciatore di serie A. Il bilancio di esercizio di una vera compagnia bananiera quotata a New York riporta: “La società attualmente non genera un reddito tassabile a livello federale negli Stati Uniti. L’utile imponibile della società proviene essenzialmente da operazioni estere tassate in giurisdizioni che applicano un’aliquota d’imposta effettiva più bassa di quella prevista dalle leggi statunitensi”. In parole povere: attualmente non paghiamo tasse negli Stati Uniti perché ci serviamo del meccanismo dei prezzi di trasferimento attraverso i paradisi fiscali.
Generalmente è difficile che le multinazionali riescano ad azzerare completamente il loro debito d’imposta servendosi del sistema offshore perché i governi prendono contromisure; ma in questa battaglia le autorità politiche tendono ad avere la peggio. Uno studio effettuato dal National Audit Office britannico nel 2007 ha rivelato che l’anno precedente un terzo delle 700 maggiori imprese del paese “non aveva pagato neppure un penny di imposte” nel Regno Unito, nonostante il boom finanziario. Sulla base di alcune indagini effettuate nel 1999, The Economist ha calcolato che la tentacolare News Corporation di Rupert Murdoch era assoggettata a un’aliquota d’imposta effettiva di appena il 6 per cento. Questa capacità di usare a proprio vantaggio il meccanismo dei prezzi di trasferimento è una delle principali ragioni per cui le multinazionali sono multinazionali, e il motivo per cui di solito crescono più rapidamente dei concorrenti più piccoli. Chiunque si preoccupi del potere delle multinazionali globali dovrebbe prestare attenzione al problema dei prezzi di trasferimento.
I paradisi fiscali affermano di rendere più “efficienti” i mercati internazionali, ma il sistema che ho descritto è profondamente inefficiente. Nessuno in questo caso ha prodotto una banana di qualità migliore o a un prezzo più conveniente. Ciò che è accaduto, invece, è un semplice trasferimento di ricchezza. Tali sussidi governativi generalizzati alle multinazionali incidono sulla loro reale produttività come fanno tutti i sussidi di questa natura, cioè la riducono. Concentrando tutte le loro energie sull’elusione fiscale, i capitalisti hanno meno tempo da dedicare a ciò che sanno fare meglio: creare beni e servizi di qualità migliore e a prezzi più bassi. E questo non è certo tutto. Quando, per esempio, le Isole Cayman escogitano una nuova ingegnosa scappatoia fiscale, gli Stati Uniti prendono contromisure e le Cayman creano altre scappatoie per aggirarle; la battaglia continua, e il codice tributario statunitense si fa sempre più complesso. Questo, a sua volta, offre ai ricchi e ai loro scaltri consulenti nuove opportunità di farsi strada nella sempre più vasta selva di disposizione normative. Si sviluppano così nuovi importanti rami di attività a servizio del settore dell’elusione fiscale: una gigantesca inefficienza nell’economia mondiale.
Consideriamo poi la segretezza. Un elemento fondamentale della moderna teoria economica è la trasparenza: i mercati funzionano al meglio quando le due parti di un contratto hanno accesso alle stesse informazioni. “Le isole del tesoro” esplora un sistema che ostacola direttamente e deliberatamente la trasparenza. La segretezza offshore trasferisce il controllo delle informazioni – e il potere che da quelle informazioni scaturisce – decisamente verso le persone ben inserite, che possono mangiare a sbafo e scaricare i costi sul resto della società. La teoria del vantaggio comparato di David Ricardo descrive elegantemente i principi che portano diverse giurisdizioni a specializzarsi nella produzione di alcuni beni: vini pregiati in Francia, prodotti manifatturiere a basso costo in Cina e computer negli Stati Uniti. Ma quando si scopre che le Isole Vergini britanniche, che hanno meno di 25.000 abitanti, ospitano oltre 800.000 società, la teoria si Ricardo perde la sua efficacia. Le imprese e il capitale migrano non verso i luoghi dove sono più produttivi, ma verso quelli dove possono ottenere le condizioni fiscali più vantaggiose. Non c’è nulla di efficiente in tutto questo.
Non si tratta solo di banane, naturalmente. Gran parte del cibo che consumiamo, dell’arredamento che acquistiamo e degli abiti che indossiamo arriva nelle nostre case per vie altrettanto contorte. L’acqua che esce dal nostro rubinetto potrebbe aver seguito un invisibile percorso offshore; il nostro televisore e i suoi componenti hanno preso senz’altro un sentiero cartaceo altrettanto misterioso, come del resto molti dei programmi che vengono trasmessi. Siamo interamente circondati dal sistema offshore.
Nicholas Shaxson*
*Shaxson è un giornalista inglese, che ha collaborato, tra gli altri, con The Economist, The Financial Times, Reuters, BBC. Esperto del mercato petrolifero, è autore di “Poisoned Wells: The Dirty Politics of African Oil”. Shaxson collabora anche con il Tax Justice Network, la rete globale che nel 2009 ha reso pubblica una “lista nera” dei paradisi fiscali.