La religiosità della terra: il rispetto dell’ambiente come fede civile
Meraviglia, commozione, sgomento, dinanzi alla natura e al suo manifestarsi in forme molteplici e discordanti: bellezza sublime, supremazia, indifferenza. Sono questi, per il filosofo Duccio Demetrio, i sentimenti che devono unirci tutti in un rapporto più rispettoso con il pianeta. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto del libro “La religiosità della terra“, da poco pubblicato dalla casa editrice Raffaello Cortina. Nel volume, lo studioso spiega come oggi sia necessaria una comune fede civile, un’alleanza feconda nella custodia del mondo, tra tutti coloro che intendono opporsi alle aggressioni, alle negligenze, ai saccheggi indiscriminati contro la nostra terra che, da madre, si rivela sempre più figlia. Qui sotto una parte del primo capitolo “L’antefatto. Le lenticchie di mio padre“.
ma non sappiamo ritrovarne il senso;
mai fu la nostra vita così piena
di incontri, di arrivederci, di transiti
come quando ci accadeva soltanto
ciò che accade a una cosa o a un animale:
vivevamo la loro come una sorte umana
ed eravamo fino all’orlo colmi di figure.
I versi di Rainer Maria Rilke mi rammentano che il primo incontro con un sentimento religioso per la terra, per i suoi misteri e ogni meraviglia, lo debbo a mio padre. Avevo circa quattro anni. Non accadde in una chiesa, né ascoltando una storia biblica o un racconto edificante. Né tale esperienza, nell’inconsapevolezza infantile di quanto stessi provando, l’avvertii dinanzi a un paesaggio senza confini, a un fenomeno naturale sorprendente, alla sua indefinibile e sublime bellezza. Non ricordo tramonti, arcobaleni, temporali estivi. Tutto questo mi si rivelò più tardi, da adolescente. Quando con la scrittura mi sembrò necessario trattenere per me, più a lungo, quelle emozioni vissute tra gli alberi: piantandone alcuni, curando il nostro giardino. Conservo invece una memoria vivida – estatica – di alcuni momenti speciali (fortuiti o propostimi per gioco), durante i quali assistevo a cause e a effetti che andavano compiendosi sotto i miei occhi per loro intrinseca necessità. Quella prima volta di cui dirò, la mia frenetica curiosità venne appagata da un quanto mai profano piattino da caffè. (…)
Il bambino di città, man mano cresceva, non si accontentava di giocare nelle strade, nelle piazze senz’alberi, tra un condominio e l’altro, né al “piccolo chimico”. Il diradarsi delle case in periferia mi spinsero a cercarla, a toccarla, a spiarla quella terra di cui avvertivo già la mancanza pur senza conoscerla ancora. Le folate di vento, ogni tanto, allora, portavano sentori di campagna, entravano nei portoni, restavano nell’aria per qualche minuto e ciò mi esaltava. Presagivo una lontananza invisibile, da andare a conoscere quanto prima. Scavando a mani nude nelle terre di varia composizione che il mio grande cortile metteva a mia totale disposizione, queste non mi ripugnavano affatto: le impastavo a piacere, le separavo dai sassi, mi rotolavo in esse, e ciò facendo il mio vocabolario si arricchiva. La terra diventava così polvere, fanghiglia, sabbia, gesso, catrame, ghiaia, argilla, melma, creta, cenere. In seguito tufo, lava, roccia, minerali. Devo alla pazienza di mia madre, oltre che ai suoi chiarimenti lessicali, quegli scandagli, la verifica continua di trovarmi realmente al mondo. Anno dopo anno, il mio rapporto con la terra (incolta e selvaggia, generosa, ordinata in giardino o in orto) avrebbe saputo poi guarirmi da ogni disinganno; lo scontento per una materia amata, ma incapace di fornirmi indizi e promesse che potessero trascenderla, che sapessero farmi intravedere una fessura, una via di accesso, nella fisicità del mondo, in grado di permettermi di scorgere le vestigia di un divino diverso da quello incarnatosi nei miracoli e nei prodigi di cui la terra era invece capace. Ne ho tratto, spero, una lezione di decenza quotidiana, mi ha insegnato a credere soltanto nelle cose evidenti; senza per questo rinunciare ad attendere un segno di quanto non riesco a vedere. La mia religiosità istintiva, quel legame spontaneo e inconscio, puerile (mi si dirà), nel corso degli anni non è mai venuta meno. Man mano che questi trascorrevano, ha saputo sorreggermi nella costruzione di una filosofia di vita. Non ho assecondato tuttavia i suoi richiami con definitive fughe in campagna. Ho preferito accettare una modalità altra di vivermi e pensarmi nonostante l’assenza di un rapporto quotidiano con le sue meraviglie. Perché il pensarla, seppur nella lontananza, in attesa di tornarci, di vederla soltanto dai finestrini di un treno o di un aereo, mi ha permesso di andare a cercarne i presagi. Lungo i marciapiedi e gli acciottolati, per scovare nei loro interstizi l’apparire di un’erba matta; nei recinti chiamati giardini, qualche uccello che non fosse un piccione. Mi ha indotto a diventare un asceta metropolitano, a fare della terra un mio luogo interiore. Nell’attesa di ritrovarla nelle sue molteplici forme. A riconoscerla nei volti stanchi e rugosi del metrò, poiché ci portiamo appresso, senza saperlo, la nostalgia di ciò da cui veniamo.
Ebbene, tornando a quel primo incontro fatale e ierofanico, tale attrazione per la terra fece dunque la sua comparsa in virtù di un usuale, fragile, e quanto mai umile (nessuno mi disse, allora, che la parola humus significa proprio terra), piattino da caffè. Sul quale, per sedare la mia frenetica curiosità, mio padre – una indimenticabile prima volta – adagiò sotto i miei occhi uno strato sottile di ovatta umida. Tra i cui filamenti aveva nascosto pochi semi di lenticchia. Dopo qualche giorno, i sottili tegumenti si incresparono, spuntarono germogli; poi sinuosamente questi presero a crescere. In rapida successione, quasi all’unisono. Mossi da una loro intrinseca volontà di apparire. Era un gioco di prestigio elementare, ma aveva il potere di incuriosirmi ben più di altri passatempi. Non solo di lenticchie però vivevo. Contemporaneamente, a dire il vero, passavo ore a discorrere con le formiche, le lucertole, le lucciole che d’estate intravedevo nello sfumare dei viali verso la Brianza, i passeri sul davanzale, i pesci rossi vinti alle fiere o che ammiravo nuotare nelle fontane sul pelo dell’acqua, il glicine dei vicini, la vite canadese in autunno.
L’indifferenza verso i giochi intelligenti come il Meccano che insistentemente e senza successo mi regalavano a ogni Natale; per ogni marchingegno tecnico, non pulsante di una sua propria vitalità corporea, è un tratto di me che riconduco, ancor oggi, a quelle iniziali e iniziatiche osservazioni. Tanto più quando scopersi che, all’ovatta, poteva sostituirsi un pugno di terriccio. Quando, finalmente, la nostra casa ebbe un balcone, la mia passione ancora ignara di sé per il pensiero presocratico e la poesia greca, in dialogo con i fiumi, i venti, il sole, le cicale, il mare…, per le domande inerenti alla sostanza prima delle cose, poté dar sfogo a intuizioni e ad applicazioni empiriche. A quel punto, gli elementi necessari alla trasformazione delle bacche grigioverdi in steli smeraldini, al dischiudersi di altre sementi, c’erano proprio tutti. L’aria, la luce, non più la bambagia ma uno strato di humus deposto in un vaso, l’acqua piovana, nel loro rimescolarsi insieme, avevano la facoltà di generare a un tempo l’inatteso e il prevedibile. La metamorfosi delle inerti e minuscole sostanze poteva iniziare.
Duccio Demetrio*
* Ha insegnato Filosofia dell’educazione all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Nelle nostre edizioni ha pubblicato, tra gli altri, Raccontarsi (1996), Filosofia del camminare (2005), La vita schiva (2007), e Perché amiamo scrivere (2011).