La gonna che visse due volte: la moda scopre l’upcycling
Mentre gli organizzatori tirano le conclusioni di un’edizione 2013 di grande successo per So critical So fashion, il primo evento italiano interamente dedicato alla moda critica e indipendente – che per il quarto anno ha animato la Fashion Week milanese – la nostra rubrica “Racconti d’ambiente” vi offre il primo capitolo del libro “La gonna che visse 2 volte” di Alberto Saccavini, per i tipi di Ponte alle Grazie. L’autore, consulente di moda sostenibile e commercio equo-solidale, spiega come tutti possiamo – da soli o con piccoli aiuti – rimettere a nuovo – con pochi tocchi – anche quella camicetta che ci piace tanto ma non usiamo più da anni. A volte basta una piega, una piccola trasformazione, un tocco di colore, un’applicazione particolare per mettere in luce le sorprendenti potenzialità di ciascun capo: dai vestiti classici alle camicie, dalle T-shirt ai jeans, dalle giacche ai maglioni tutti i capi possono diventare qualcosa di nuovo e interessante. L’estratto (copyright: Ponte alle Grazie) è dedicato al concetto di Upcycling, ossia l’arte di ridare nuova vita ai propri abiti.
Se Eva avesse avuto, invece di una foglia di fico, un pezzo di stoffa si sarebbe fatta un bel vestito. Probabilmente un drappeggio. L’Autore
Upcycling è una pratica virtuosa grazie alla quale una«cosa» da buttare viene trasformata in qualcos’altro che – diversamente dal riciclo – assume un maggior valore, con benefici in termini energetici e materiali. Applicare questo concetto al mondo della moda non è complesso, anzi. È forse uno degli ambiti in cui le potenzialità dell’upcycling emergono in maniera più evidente. Questo libro estende il concetto dell’upcycling al «vestire», come hanno già fatto e continueranno a fare – anche in modo inconsapevole – milioni di persone in tutto il mondo. E anche voi.
«Vestire» rappresenta un concetto ben più ampio – e un gesto assai più solenne – che il mero ricoprire il corpo con una stoffa per il proprio pudore, per il clima rigido, per le spine o le ortiche dei campi. Perché è da sempre espressione di differenti modalità umane. Il vestire – vestirsi o essere vestiti, sfumature importanti – può declinare il proprio ruolo all’interno della società oppure, quando ci si «traveste», quello che si vorrebbe (o che si gioca a) ricoprire. Non a caso si dice, nella professione o nell’esercizio di un’abilità, «avere la stoffa». Vestire ha dunque sempre identificato professioni, classi sociali, estrazione familiare,caste. In questo senso si usa dire «in veste professionale» o più genericamente «in veste di…». Non solo: l’abito può identificare – oggi come ieri – anche il proprio luogo di provenienza, la propria etnia, la propria nazione, in tutto il mondo, dalla nudità delle culture indigene al vestire ridondante di quelle che noi chiamiamo avanzate.Negli ultimi decenni – da quando le mode imperano,soprattutto tra i più giovani – tale riconoscibilità non si limita a mettere in evidenza solo l’estrazione sociale ma fa trasparire scelte politiche ben precise, dal punk ai figli dei fiori. Anche oggi vestire in un certo modo significa ancora essere parte del gruppo, forse ancora di più non essere «out». Qui il punto non è tanto esprimersi, ma essere conformi e quindi accettati.Una parte di responsabilità di questa forzatura ricade per certo sulle riviste patinate e sui negozi seriali.
Vestire resta però espressione di sé, soprattutto in caso di upcycling: senza altri condizionamenti, se non gli abiti a propria disposizione, ciascuno può esprimere la sua identità, il proprio stile e la propria personalità senza essere il «servo muto» o il manichino di chi i vestitili disegna, li produce o li vende (e non ultimo di chi fa loro pubblicità). Ma non è solo l’anticonformismo che ci invita all’upcycling. Ci sono il risparmio economico e, prima di tutto, l’attenzione all’ambiente e alle risorse del pianeta. Per ogni vestito che decidiamo di «upcyclare», infatti, almeno un vestito non finisce in discarica. E il nostro armadio è spesso troppo pieno, a volte di cose che non usiamo – per i motivi più svariati dalla moda, all’età, a esigenze di lavoro o sociali. Ma allora perché, invece di andare a cercare qualcosa di nuovo, non rovistiamo nel guardaroba e ne estraiamo non solo un indumento, ma un’idea per riportarlo in vita? I piccoli accorgimenti e i trucchi che possono trasformare un capo e farlo tornare speciale sono l’oggetto di questo libro, il nostro scopo dichiarato. Troppo? Niente affatto. Non abbiamo paura di dire che è possibile arrivare con poco sforzo all’outfit che ci serve in ogni occasione. Questo libro quindi è stato scritto per chiunque possieda un armadio. Apritelo!
Cradle2cradle: dalla culla alla culla
Torniamo al termine upcycling e ripartiamo dal concetto di «cradle to cradle». Il termine upcycling, infatti, è stato coniato – o meglio ha trovato la sua consacrazione – nel libro Cradle to Cradle (William McDonough, North Point Press 2002; trad. it. Dalla culla alla culla, Blu, Torino, 2003). Qui l’idea che un prodotto abbia una «vita» lineare, cioè «dalla culla alla tomba», viene stravolta e trasformata in un ciclo. Nel «cradle tocradle» ogni componente di un progetto è disegnato in modo da poter essere riciclato, o meglio «upcyclato» ,in un sistema che non creerà alcun rifiuto. Senza adottare una visione così categorica possiamo affermare che l’upcycling significa creare – come già affermato – cose nuove con un ridotto apporto di energie e un’elevata qualità – valore in senso ampio – del prodotto finito. La filiera di produzione e la progettazione prevedono a monte il reinserimento di materiali già esistenti nei successivi cicli produttivi.
Nella definizione di upcycling rientrano dunque aspetti estetici, pratici ed ecologici: trasformare una cosa – nel nostro caso un vestito –in qualcosa di differente e che ci piace; riportare in auge e valorizzare capi finiti nel dimenticatoio; rinnovare con poca o nessuna spesa il nostro guardaroba; uscire dal circuito compra-indossa-butta; restituire vita e dignità a un oggetto che da molti viene considerato un rifiuto; evitare che molti vestiti finiscano nei cassonetti e quindi negli inceneritori o nelle discariche.
Ma scendiamo (o saliamo) sul terreno pratico, quello in cui si sente il rumore dei cardini del nostro armadio, della cassapanca, della porta del solaio che si apre e il fruscio delle stoffe, la frustata del pantalone sbattuto, la carezza energica per stirare un po’ quello che è rimasto spiegazzato, il bottone che cade (recuperiamolo!). Avete schiuso le porte del vostro conclave di abiti. Quale sarà quello «eleggibile»? Chiediamoci prima di tutto che cosa si può fare con un vestito – a parte ritrovarlo e sottrarlo dalle grinfie delle tarme – e applichiamolo a quelli che avete sotto gli occhi.
Sarete sorpresi di trovare un lungo elenco di possibilità. Ripensarlo e cambiarne la funzione; girarlo o rivoltarlo; metterlo in taglia; trasformarlo in un altro vestito; colorarlo o tingerlo; adornarlo e abbellirlo; aggiustarlo; usarne un particolare; smembrarlo e riassemblarlo.
Alberto Saccavini*
* Consulente di moda sostenibile e di commercio equo e solidale. Dopo un master a Oxford in Humanitarian and Development Practice ha incominciato ad occuparsi principalmente di Moda e Sostenibilità, così da unire le diverse esperienze maturate in Italia e all’estero. Ha svolto una serie di consulenze tra Sudafrica e India nel mondo del Fair Trade. Ora rientrato in Italia offre le sue conoscenze a designer, aziende, università, gruppi di acquisto solidale e altri che vogliano conoscere o approfondire i temi della sostenibilità nel mondo della moda. Ha scritto con Valentina Simeoni e Nadia Gozzini, Sarto Subito! (2011) per Altreconomia edizioni.