“La felicità sul tetto del mondo”: a piedi al cospetto dell’Everest
“Se qualcuno mi chiedesse che cos’è la felicità, risponderei che la felicità è camminare in montagna”. Con questa frase si apre “La felicità sul tetto del mondo. Diario di un trekking in Nepal“, da poco pubblicato dalle Edizioni Asterisk. Nell’ebook, Michela Alessandroni, camminatrice e fondatrice lei stessa di un’altra casa editrice digitale, va alla scoperta di un paesaggio bellissimo, da Katmandhu fino al campo base dell’Everest. Il libro è il diario di un viaggio, il racconto del cammino interiore dell’autrice ma anche una guida utile per appassionati di trekking e per chi si avvicina al mondo delle camminate e vuole sfidare le proprie abilità (non solo fisiche ma soprattutto mentali) passando dall’Appennino alla montagna per eccellenza: l’Himalaya e il trekking in Nepal. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto che racconta una tappa della salita al campo base, da Phakding (2610 m) a Namche (3440 m).
Questa mattina presto siamo partiti per Namche Bazar. È stata una camminata lunga e faticosa, ma che soddisfazione! Che paesaggi spettacolari! Non avevo mai visto tanta bellezza naturale in vita mia.
La pioggia non ci ha ancora abbandonato, anzi, ha ridotto in fango la nostra salita, rendendo tutto più difficile e scivoloso. Il problema non è l’acqua in sé che ti batte addosso per tutta la camminata, ma il fatto che ti inzuppi vestiti che non sai se potrai asciugare, e il guardaroba è molto limitato, e ti bagni i capelli che non potrai lavare che tra due settimane. È il ciclone che gira mietendo vittime sull’India; il suo braccio ha preso tutto il Nepal, perciò piove ininterrottamente su tutto il Paese.
Oltre a questo, gli inconvenienti sono sempre in agguato. Ieri avremmo dovuto avere la doccia calda, mentre invece non è stato possibile e, nonostante la camminata, non ci siamo potuti lavare. Il mio flacone che conteneva il liquido delle lenti si è aperto nel bagaglio trasportato dal portatore e si è rovesciato completamente. Risultato: un paio di lenti messe pochissimo le ho dovute buttare, non ho più il liquido e ho altri vestiti bagnati. Ma pazienza, ci si adatta a tutto e lamentarsi non serve a niente.
Oggi abbiamo camminato per cinque ore, coprendo un dislivello di 850 metri su un lungo percorso fatto di continue salite e discese: siamo partiti da Phakding, abbiamo superato Bengkor, Chhamuwa, Monjo, Jorsalle (dove abbiamo fatto una sosta per il pranzo, ma le pause non le conteggio nelle ore di cammino) e Larja Dobhan, per arrivare infine a Namche.
Lungo la strada ho incontrato un bambino piccolo e paffuto. Capelli corvini e occhi neri, come tutti qui. Sulla soglia di casa, mi ha visto passare e mi ha salutato a gran voce: «Namaste!».
Siamo passati con grande emozione per il primo punto da cui si vede l’Everest, che in nepalese è chiamato Sagarmatha e che dà il nome a tutta la zona, e abbiamo attraversato i famigerati ponti sospesi tra le montagne. Non ho avuto paura, anzi è stato molto bello vedere il fiume in piena galoppare sotto di me e le montagne altissime stagliarsi attorno. Il più alto che ho attraversato si trova al di sopra del vecchio ponte di Hillary. E sotto, a 100 metri di distanza, la confluenza di due grandi fiumi: uno tibetano e uno nepalese. Fiumi fratelli, come i due popoli del Nepal e del Tibet.
Edmund Hillary è stato un esploratore e alpinista neozelandese, famoso per aver raggiunto per primo la cima dell’Everest insieme allo sherpa Tenzing Norgay, nel 1953. Qui in Nepal è una figura molto amata e in effetti ha fatto molto per la popolazione locale: ha costruito un ospedale e una scuola per i bambini, un piccolo aeroporto, dove sua moglie e sua figlia morirono a causa di un incidente, e ha costituito la “American Himalayan Foundation”, a scopi ambientali e umanitari.
Fiumi fratelli, come i due popoli del Nepal e del Tibet, dicevo. Se in Occidente è molto sentita la questione dell’occupazione cinese del Tibet, qui è vissuta come sentimento molto vivo e doloroso. Più volte ho sentito ribadire che quella zona si chiama Tibet e non Cina e visto sguardi infastiditi dalla presenza di turisti cinesi.
Namche è il più grande villaggio della zona. Abbiamo il bagno in camera con l’acqua calda e tanti negozietti, tra cui una farmacia, il wi-fi a pagamento e la lavanderia. A quanto pare, tutti i miei problemi di panni da asciugare e lenti a contatto si sono risolti.
Il cibo continua a essere molto buono. Quasi mi piace più quello di montagna rispetto a quello di Kathmandu: puoi mangiare pasta, pizza, tramezzini, zuppe. Sto bevendo molto tè nero, ogni momento è buono per sorseggiarne una tazza.
Anche il signore canadese è qui a Namche. Non c’è traccia, invece, dei russi. Ieri sera hanno bevuto talmente tanto e fatto chiasso sotto i volti sgomenti dei nepalesi che oggi saranno rimasti a dormire fino a tardi.
Non volevano cessare di bere ieri, allora la loro guida li ha intimati di smettere perché si sarebbero dovuti svegliare presto. Poi ha chiesto al bar di non servire più niente, al che uno di loro ha tirato fuori un mucchio di soldi, dicendo che voleva bere ancora e che avrebbe potuto pagare qualunque cifra. Quanta strafottenza!
Il lodge è strapieno, tanto che guide e portatori devono dormire per terra nella stanza comune. Per me è stata invece una notte tranquilla. Ho sognato un monaco. Mi chiamava con uno dei soprannomi che mi hanno dato in famiglia e mi diceva che in questo viaggio avrei conosciuto un altro livello di spiritualità.
Michela Alessandroni *
* (Roma, 1976) ama leggere, scrivere e camminare in montagna. Dopo aver maturato un’esperienza professionale decennale lavorando con diversi editori, nel 2012 dà vita a una nuova realtà editoriale: flowered,una casa editrice nativa digitale. Ha percorso i boschi e i sentieri italiani per poi cimentarsi in untrekking fra le montagne dell’Himalaya, giungendo fino al campo base dell’Everest.