La casa dei sette ponti
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “La casa dei sette ponti” di Mauro Corona, edito da Giangiacomo Feltrinelli Editore (pag. 64 , 7.5 euro).
Lungo una strada tortuosa e stretta, che percorre una valle solitaria, aspra quanto serve per intimorire il viandante, a un certo punto compare una curva. Su quel gomito d’asfalto, poco sotto un gradino di roccia, spunta improvvisa come un saluto una casa d’apparenza antica. Èuna casupola umile, fatiscente, di forma inusuale, con finestre che almeno da un fianco guardano dolenti il viavai delle automobili. Le imposte si aprono verso l’alto come ciglia sopra occhi malinconici. Sul tetto il peso degli anni ha premuto come il pugno di un gigante, lasciando orme concave e bugne scomposte.
Forse per occultare quelle testimonianze di tempo e povertà, soprattutto per impedire a pioggia e neve visite inaspettate e poco gradite, qualcuno ha steso, lungo l’intera ampiezzadel tetto, robusti teli di vari colori. Dal breve rettilineo prima della curva, la costruzione balza all’occhio rivelando come uno strano connubio tra una tenda coloratissima e un fortino pronto a difendersi dai curiosi.
La casa esprime un vivere umile e dignitoso non scevro di un certo mistero. Ma la visione che rallegra il cuore, passandovi accanto, sono due comignoli che sempre fumano, estate e inverno, giorno e notte, in tutte le stagioni. Stanno lassù, impiantati sul tetto rammendato,come gnomi che sbuffano col cappello storto.
Il viaggiatore distratto e frettoloso difficilmente ferma lo sguardo su quell’umile casetta. Invece la sua presenza meriterebbe attenzione. È un esempio di resistenza alle avversità della vita, alla corrosione del tempo, alla povertà accettata in silenzio. Quella casa comunica l’idea del vivere appartato e fiero di qualche anima solitaria che non chiede niente a nessuno.
L’intaglio lungo il quale si snoda la strada ès empre ombroso, stretto fra pareti alte e ripide, in fiorate di alberi ritorti e stentati, sorretti da ciuffi di zolle nervose come calci di capra. Ogni tanto rocce verde scuro pencolanti e sgretolate appaiono qua e là, incombono da una parte e dall’altra come minacce. Sembrano sul punto di cadere, ma non cadono. Rimangono lassù, aggrappate al nulla, come un alpinista incrodato. Forse vogliono ricordare al viandante la precarietà dell’esistenza.
Giù in fondo, con la stessa pazienza dei pendii, scorre un torrente dall’aspetto inaccessibile, di colore scuro come la valle che lo tiene in grembo. Solo ogni tanto, nelle balze più ostiche e nei salti, l’acqua si illumina di sorrisi con bagliori lucenti e occhi d’oro. D’autunno, i funghi rotolano in basso perché la valle trema di nostalgia e silenzio, mentre le poiane fanno i loro giri, a controllare che tutto rimanga segreto.
Quella valle è uno sbrego torturato e duro, dieci chilometri lungo i quali i bordi sembrano abbracciare gli automobilisti e tirarli su, a respirarepiù in alto, dove c’è aria e sole. Da queipendii scabri, sospesi sul vuoto, piccoli alberi ritorti e pieni di tristezza guardano verso un punto lontano, dove fratelli più fortunati godono un rigoglio unico in un posto meraviglioso: l’Abetone. E allora piangono. Spesso singhiozzano di dolore per essere stati confinati lassù, all’eterna penitenza, da qualche spirito invidioso e malvagio. Piangono e bagnanola strada: gli automobilisti, ignari, pensano che stia piovendo, e imprecano contro quella valle umida, disagevole e piovosa.
Sui margini alti, ogni tanto, molto raramente, appare una casupola appollaiata sul suo terrazzo come un’aquila sul nido. È un mistero se ci viva o meno qualcuno, per il resto, tutto intorno, non c’è altro.
L’uomo, sui sessanta, facoltoso industriale della seta in quel di Prato, percorreva ogni tanto quella strada. Viveva un po’ a Bologna e un po’ a Firenze, anche se i suoi affari fiorivano laggiù, nella città conquistata dai cinesi. Proprio così: conquistata. Il tessile era passato di mano. Un’antica tradizione era andata in fumo. Prato,che prima potevi riconoscere dall’ industriosità locale, ora sembrava una provincia cinese. E progressivamente la produzione e il commercio avevano assunto un che di segreto, e misterioso. L’uomo faceva quel percorso inusuale perfermarsi in un paese vicino all’Abetone a salutare i vecchi amici. Cercava Federico il fungaio, Stinki il cuoco, Lupo il cantante, Vittorio il pensionato,Tranquillo il cacciatore. E Fiorella e Paolo, poi altri come Mauro e Lucia, il Gufo e Giuliana. E Consuelo, un amore antico e tena cecome la volontà, mai dimenticato. Alcuni sen’erano andati da questo mondo con discrezione e silenzio, come Gildo e Valerio. Altri erano scomparsi seppur vivi, dispersi nelle città a cercar fortuna mentre gli anni passavano, la fortuna si nascondeva e la vecchiaia trovava loro.
Mauro Corona*
*Mauro Corona è nato in provincia di Trento nel 1950, ma fin da bambino è vissuto in Friuli, a Erto, uno dei paesi colpiti nel 1963 dal disastro del Vajont. Alpinista, scultore e scrittore, ha scritto molti romanzi diventati best seller. ConLe voci del bosco ha vinto il premio Grinzane-Cavour 2008 e con La fine del mondo storto il premio Bancarella 2011.