L’ultima poesia
“Strappami la vita e quietami i pensieri, mare”. Questo sarebbe stato l’inizio della mia ultima poesia. Lo sentivo, era l’ultima.
Due settimane fa ero nel mio studio, in città, a scrivere. Ebbene si, sono un vecchio scrittore barbuto, attaccato alla macchina da scrivere, come un panda al bambù. Sogno storie, le vedo negli occhi della gente che incontro, nelle tasche rovesciate dei cappotti messi via l’inverno passato e tirati di nuovo fuori dagli armadi al ritorno del freddo. Scovo storie nei granelli d’asfalto delle strade violate dalle macchine, nel pulviscolo dell’aria colpita dai raggi del sole. È una vita che trovo storie nei posti più inusuali e potrei farlo per un’altra vita ancora. È una necessità, è come respirare o mangiare. Mangio storie. Respiro parole. Sono una specie di Caronte che traghetta pensieri per concretarli sulla carta. Li porto da una parte all’altra, da mano a orecchio, dall’ideale al reale. Ogni volta è come se staccassi un pezzo di me, non so mai di che brandello si tratta, ma è qualcosa di profondo.
Quando ho iniziato avevo paura di rimanere senza più nulla dopo un certo numero di racconti, di sparire, di rimanere solo luce. Scrivere è una fatica, una sfida che sfiora il masochismo. L’ho accolta da sempre a piene mani.
Vi dicevo, due settimane fa ero nello studio, e ho capito che il mio tempo stavo finendo. Succede quando inizi a vedere le luci meno forti, i contorni meno netti, le persone meno interessanti e nelle tasche dei cappotti invernali, ad ottobre, non trovi più nulla.
Ho deciso, dovevo partire. Dovevo abbandonare l’ambiente metropolitano e approdare sull’Isola. Le isole sono il territorio più affascinante per un osservatore, la vista si perde nel mare a trecento sessanta gradi e puoi stare in un posto che ne è il centro, puoi girarne il perimetro, puoi perderti all’interno. Avevo fatto pochi bagagli, il fagotto del viaggiatore, non le valigie del turista. Sono arrivato sull’Isola e mi sono ambientato in un millesimo di secondo, mi sono fuso con il verde, mi sono amalgamato con la sabbia. Ho montato la tenda. Ho acceso il fuoco, si stava facendo buio. Ho iniziato a scrivere “Strappami la vita e quietami i pensieri, mare”.. la mia ultima poesia.
Il giorno dopo avevo deciso di pulire tutta la spiaggia e fare un elenco di tutti gli oggetti che trovavo affondati nei granelli. Appena sveglio iniziai col mio retino a setacciare. Ecco la prima reliquia del giorno: un braccialetto d’argento con inciso sopra “per sempre”. Chissà chi era il proprietario, chissà se quel “per sempre” si era perso insieme al bracciale. Molto meno romantici gli oggetti che trovai più avanti: un assorbente a cui era seguito un numero infinito di mozziconi di sigaretta, un accendino, una lente scura di un paio d’occhiali da sole, una confezione vuota di chewingum, un sacchetto di plastica, tre bottiglie di vetro, due di birra e l’altra di vino rosso, un giornale ingiallito dal tempo, una matita, una forcina, una rotella di liquirizia e una lettera.
La lettera mi aveva fatto salire una certa emozione, l’avevo aperta, guardandomi intorno, con un po’ d’imbarazzo. L’emozione era svanita scoprendo che si trattava di una lettera di sollecitazione di un libro alla biblioteca della città. Il libro richiesto era Robinson Crusoe di Daniel Defoe, chissà se era tornato a destinazione o se invece se l’era mangiato il mare, come avrebbe mangiato anche me. Più tardi.
Finita la pulizia della mia ultima dimora terrena avevo issato un grande cartello, all’entrata della spiaggia, con l’elenco degli oggetti che avevo trovato. All’inizio dell’elenco, nella parte superiore del cartello, avevo scritto “è vietato abbandonare sulla spiaggia:”. Penserete: che vecchio rompiscatole, viene lì un giorno, si prende la briga di pulire tutto e detta regole, prima di crepare ed essere dimenticato. Non sono un eroe, ma volevo che il lavoro che avevo fatto venisse mantenuto nel tempo. Con o senza di me. Finito quest’impiego mi ero rimesso tranquillo, seduto non troppo lontano dalla tenda, col mare che mi solleticava i piedi. Tutto era pulito, non c’erano più schifezze o oggetti strani intorno a me. Potevo concludere la mia ultima poesia. “Strappami la vita e quietami i pensieri, mare. Prendimi nella tua infinità e culla i miei remoti desideri. Custodisci l’ultima idea, svelami il tuo segreto. Lasciami dormire nei tuoi abissi, ti sarò per sempre deb…”. Mi ero lasciato andare, sentivo che le forze erano finite, anche per riuscire a scrivere una sola, ultima, parola.
Avevo vent’anni e quella mattina ero arrivato alla spiaggia con Paolo e Matteo, volevamo fare una partita di calcio, avevo portato io il pallone e lo tenevo stretto fra braccio e fianco. È stato appena dopo il nuovo cartello piantato nella sabbia all’entrata, con tutte le nuove regole per non sporcare l’ambiente, che vidi il corpo di un uomo. Era a riva. Mi avvicinai per vedere se era ancora vivo. No. Era morto e semi zuppo. Era un uomo elegante, con tanti capelli bianchi e una barba grigia lunga. Aveva una giacchetta di velluto marrone e sotto una camicia bianca, un fiore rosso, una rosa, pinzata all’occhiello con una spilla da balia, pantaloni beige. L’unica nota che stonava erano degli scarponcini da montagna ai suoi piedi, doveva aver camminato tanto per venire a morire qui. Non lontano c’era una tenda montata, doveva essere sua, e i resti di un falò. Il suo volto mi aveva ipnotizzato, rimasi a guardarlo qualche minuto, mentre Paolo e Matteo mi chiamavano a gran forza e mi sollecitavano di avvertire la polizia per far portare via quel corpo senza vita. I suoi occhi, verdi, mi guardavano. Accennava un mezzo sorriso sulle labbra. Non volevo chiamare la polizia, non volevo che lo portassero via dal posto in cui aveva deciso di finire i suoi giorni. Dal taschino della giacca di velluto marrone scorsi un foglietto che usciva, lo lessi, era una poesia, bellissima e incompiuta, sembrava una preghiera. Misi in tasca il foglio, presi l’uomo da un braccio e lo portai in mare, fino a dove toccavo, mi bagnai tutti i vestiti, poi lo spinsi con tutte le mie forze, ancora più a largo. Forse la corrente lo avrebbe riportato a riva, ma volevo fargli godere ancora l’ondeggiamento dell’acqua. Ritornai a riva e corsi via dalla spiaggia con Matteo e Paolo a seguito. Non ci tornai più.
Oggi sono tornato in quel luogo. Adesso ho settantasei anni. Sono tornato con la poesia dello scrittore, che avevo trovato lì, morto, più di cinquant’anni prima. Di tempo ne era passato, ma non avevo dimenticato quell’incontro. Ho ripulito tutta la spiaggia, aggiungendo all’elenco altri oggetti da non disperdere nella sabbia. Ho infilato il foglio su cui era scritta la poesia, in una bottiglia di vetro, ho chiuso la bottiglia con un tappo di sughero. L’ho abbandonata nel mare. Qualcuno un giorno troverà l’ultima poesia di un vecchio scrittore, un eroe, barbuto ed ecologista.
Stephania Giacobone