Il volo della Martora
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Il volo della Martora”, di Mauro Corona edito da Vivalda Editori (pag. 208, euro 15.00).
Il mio primo maestro d’arte è stato il nonno paterno. Era nato nel 1879 e portava i baffi alla Francesco Giuseppe. In gioventù aveva corso la prima Milano-Sanremo, ma non faceva il ciclista di professione: era un venditore ambulante e si trovava da quelle parti per commerciare gli oggetti in legno che lui stesso intagliava. Da Erto andava fino a Milano con una bicicletta molto robusta e munita, davanti e dietro, di portapacchi su cui stavano fissati due cassettoni contenenti le cose da vendere. Il nonno era allenato e concluse la gara. Non mi disse mai con quale piazzamento, forse non lo ricordava.
Partiva in primavera al primo canto del cuculo e tornava quando le foglie iniziavano a cadere. I sacchi con la merce li spediva via treno da Longarone e teneva il suo deposito merci presso una famiglia di Gallarate. Durante i lunghi e silenziosi inverni lavorava ai manufatti: scolpiva cucchiai, forchette, setacci, pale da fornai, mestoli e ciotole. Io spiavo i suoi gesti mentre un gran fuoco riscaldava la casa ingombra di legni. Sopra il fuoco, appesa alla catena del camino, bolliva eternamente una pentola di fagioli.
Mio nonno capiva gli alberi come nessun botanico saprebbe. Di certo non conosceva i nomi in latino, ma conosceva il loro carattere. Ogni pianta possiede un suo temperamento, diceva, e in base a questo reagisce all’uomo che la tocca. C’è il legno dolce, quello malinconico, quello astioso, quello tenace, quello egoista e via di seguito; come negli esseri umani, del resto. Lui lo sapeva e mi insegnava queste cose un po’ alla volta, con calma e saggezza.
Imparai che i denti dei rastrelli si fanno con il carpino. Il carpino è cocciuto e resiste nel tempo allo sfregamento. L’asta invece deve essere di pino giovane che, essendo buono e tenero, non provoca le vesciche alle mani. Tutti gli altri legni spellano le mani, soprattutto l’acacia. Quasi subito reputai superfluo preoccuparmi della qualità del legno per l’asta del rastrello: avevo scoperto che lavorando si formano i calli e non si sente più alcun dolore. Le spine delle botti devono essere di maggiociondolo poiché, a differenza degli uomini, quel legno resiste al vino per molti anni. Con il cirmolo si costruiscono le credenze. Se non viene soffocato da inutili vernici, il suo effluvio profumerà la casa di resina per sempre. L’acero è adatto a fare i mestoli da polenta. Bianco, pulito, rispettoso del cibo, proprio un gran legno. È però alquanto cattivello e si diverte un mondo a sbrecciare gli utensili all’artigiano. Il tasso è un albero altezzoso e pieno di sé. Durissimo, sfida gli attrezzi ridendo. Ha un colore rosso sangue con fiammature stupende. Non accetta ruoli umili e vorrebbe essere sempre trasformato in oggetto d’arte. I tornitori lo impiegavano per fare gli arcolai da filare la lana. Il manico della scure deve essere di faggio perché sopporta benissimo le torsioni. Pure di faggio le ciotole e i cucchiai. Lo si deve lavorare quando è ancora fresco a causa del suo pessimo carattere: non sopporta il tempo che passa e a un certo punto della stagionatura si chiude in se stesso diventando inattaccabile. Esistono legni tristi che piangono appena li sfiori. Ad esempio il giunco, o la vite selvatica. Con quelli si costruivano le culle ai neonati. Forse perché la vita stessa è un lungo pianto. Dei tronchi da lavoro si adopera solo il primo pezzo, quello che esce dalla terra. Non più di un metro e mezzo.
Ero ancora bambino quando apprendevo questi segreti da un vecchio alto e taciturno. Potrei andare avanti per ore a descrivere l’anima delle piante. In seguito, quella conoscenza tornò utilissima al mio lavoro di scultore. Augusto Murer, che guidò i miei primi tentativi, espresse più volte la sua ammirazione per la competenza in materia di legno che dimostravo quando andavo in autostop nel suo studio di Falcade a rubargli il mestiere. Rubai dal ‘75 all’85, anno in cui morì.
Il nonno amava i boschi e tutto ciò che essi regalavano. Aveva allevato la famiglia adoperando i prodotti delle selve. Sempre con grande rispetto. In primavera mi portava con sé quando andava a fare gli innesti sugli alberi da frutta. Durante l’operazione esigeva che io compissi sempre un particolare rito: mentre incideva col temperino il fusto per innestarvi la nuova gemma, io dovevo tenere le mani serrate attorno alla pianta madre che, secondo il suo pensiero, si sarebbe in qualche modo sentita protetta. «Nel momento in cui la taglio – mi spiegava – ha dolore e le viene la febbre. Le tue mani l’aiuteranno a superare la paura.»
Parlava con una tale convinzione che a volte mi impaurivo credendolo matto. Oggi provo la stessa impressione ai discorsi di certi protezionisti. Quando lavoro nel bosco mi piace ancora stringere le cortecce degli alberi con le mani.
Mauro Corona*
*Nato nel 1950 a Erto, ai piedi del Campanile di Val Montanaia, vi è sempre vissuto. Da ragazzo ha lavorato come boscaiolo e cavatore. Fin da bambino ha cominciato a intagliare il legno, sotto la guida del nonno, per diletto. Lo scultore Augusto Murer ha intuito il suo talento e lo ha accolto nel suo studio di Falcade. Alpinista e arrampicatore fortissimo, ha aperto innumerevoli itinerari sulle Dolomiti d’Oltre Piave, sviluppando il gusto per la ricerca e la sperimentazione che caratterizza tutta la sua attività creativa. Dopo questo esordio letterario, la scrittura è divenuta un’altra sua grande passione, sino a farne uno tra gli scrittori di montagna più prolifici e amati.