“Il Pianeta tossico” e affollato: la crescita demografica impazzita e gli effetti sulle risorse
Affolliamo un pianeta che abbiamo inquinato e depredato fino al punto di non ritorno. Entro il 2050 dovremo raddoppiare la produzione di cibo per sfamare più di 9 miliardi di persone – oppure ridurre gli sprechi e cambiare gli stili di vita. Perché le terre coltivabili sono finite, i pesticidi avvelenano l’acqua, deforestazione e fertilizzanti accelerano i cambiamenti climatici che a loro volta causeranno siccità e inondazioni, minacciando i fragili raccolti di un’agricoltura intensiva che divora enormi quantità di energia. Siamo troppi, consumiamo già il doppio delle risorse che la Terra può generare e vorremmo consumare ancora di più. Il baratro è sotto i nostri piedi. “Il Pianeta tossico“, da poco pubblicato da Piano B edizioni, racconta la più grande sfida che l’umanità abbia mai affrontato: sopravvivere a se stessa. Perché non c’è alcun pianeta da salvare: la Terra può benissimo fare a meno di noi, l’ha fatto per miliardi di anni, e potrebbe tornare a farlo presto. Il giornalista scientifico Giancarlo Sturloni, autore del volume, lo spiega con un linguaggio chiaro e diretto, senza tecnicismi o prudenze, per offrire al lettore la possibilità di comprendere le cause della crisi ambientale e cosa ci attenda nei prossimi decenni. Si chiede se possiamo evitare la catastrofe, o se non sia già troppo tardi. Spingendosi a immaginare cosa resterà del nostro mondo: scheletri di megalopoli, pozzanghere di veleni chimici, barre di combustibili nucleari, spiagge arcobaleno di granelli di plastica. Con una convinzione: l’ambientalismo non è grido di allarme. È una critica radicale al modello di sviluppo che ci ha condotti sull’abisso. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un paragrafo del terzo capitolo, dal titolo “Siamo troppi”.
Il primo fu il naturalista olandese Antoni van Leeuwenhoek, nella seconda metà del Seicento. Osservando al microscopio il frenetico accalcarsi dei suoi spermatozoi in una goccia di liquido seminale, non resistette alla tentazione di calcolare la popolazione umana che abitava la Terra. A forza di riprodurci, pensò, presto esauriremo lo spazio che ci è concesso e ci troveremo a sgomitare come spermatozoi in uno schizzo di sperma.
In quel primo sforzo di stimare quanti esseri umani potesse sopportare la Terra, van Leeuwenhoek partì dall’ipotesi che in Olanda vivessero all’incirca un milione di persone, e che la superficie abitabile del pianeta avesse un’estensione 13.000 volte maggiore del suo paese d’origine. Ai suoi occhi, nell’Olanda di allora si stava già fin troppo stretti, sicché immaginò che le altre regioni abitate non fossero ancor più affollate. E così arrivò a concludere che sulla Terra vivessero circa tredici miliardi di persone. E che il pianeta non potesse sopportarne di più.
In realtà, all’epoca di van Leeuwenhoek la popolazione umana si aggirava intorno al mezzo miliardo. Mentre gli olandesi, che oggi sono sei milioni, e con oltre quattrocento individui per chilometro quadrato conservano il primato europeo di densità demografica, hanno imparato a stiparsi meglio. Eppure, nonostante le premesse sbagliate, le nostre stime sul carico di persone che il pianeta può reggere non sono poi così lontane da quelle azzardate quattro secoli fa dal naturalista olandese.
Come detto, oggi siamo oltre sette miliardi, e al ritmo conigliesco di un milione in più ogni quattro giorni e mezzo, entro fine secolo arriveremo a dieci miliardi. Forse la Terra può sopportare un numero di persone ancora maggiore. Ma non c’è dubbio che si comincia a stare stretti. Non tanto per ragioni di spazio, bensì in termini di risorse naturali disponibili per la nostra stessa sopravvivenza.
E anche su questo le prime preoccupazioni risalgono a parecchio tempo fa. Verso la fine del Settecento un giovane reverendo anglicano di nome Thomas Malthus si accorse che nella sua chiesa del Surrey si celebravano più battesimi che funerali. L’ecclesiastico fece due più due e nel 1798 pubblicò il suo celebre Saggio sul principio di popolazione, ammonendo che la specie umana proliferava troppo rapidamente rispetto alla disponibilità di cibo. Presto o tardi, ragionò Malthus, non ne avremmo avuto a sufficienza per tutti.
Il padre della demografia aveva osservato che, in natura, quando una popolazione cresce troppo in fretta rispetto alle risorse a disposizione va incontro a un collasso demografico, talvolta fatale per l’intera specie. E non trovava ragioni per cui la nostra specie avrebbe potuto fare eccezione.
Malthus aveva però sottostimato il potere dell’innovazione tecnologica, che proprio all’epoca conobbe un’accelerazione sorprendente. La rivoluzione industriale e la scoperta dei combustibili fossili permisero all’umanità di aumentare la produzione di cibo oltre ogni aspettativa, sostenendo una crescita demografica vertiginosa.
Forse però Malthus non aveva completamente torto. Lo sviluppo tecnologico potrebbe avere solo rimandato il problema.
La storia umana mostra che in passato anche civiltà tecnologicamente
evolute si sono scontrate con i limiti imposti dalla finitezza delle risorse naturali. Lo sfruttamento eccessivo dell’ambiente ha sempre giocato un ruolo cruciale nel loro rapido declino, che spesso è giunto inaspettato, poco dopo aver raggiunto il culmine della prosperità.
A decretare la fine degli antichi abitanti dell’Isola di Pasqua, per esempio, fu il disboscamento completo del territorio. Per iMaya, invece, una funesta combinazione di crescita demografica, danni ecologici e mutamenti climatici.
Per caso vi ricorda qualcosa?
Deforestazione, distruzione degli habitat, erosione del suolo, prosciugamento delle risorse idriche, eccesso di caccia e pesca,aumento eccessivo della popolazione, pratiche agricole insostenibili, cambiamenti climatici: sono questi gli ingredienti ambientali che hanno spinto al collasso le civiltà del passato. Noi moderni potremmo aggiungere una spolveratina di sostanze artificiali supertossiche. Il tutto condito, oggi come ieri, con una sottovalutazione dei segnali premonitori, nell’incapacità di capire la gravità della minaccia o per il prevalere di interessi egoistici di parte. Ed ecco la ricetta del perfetto eco-suicidio.
Certo, quando gli abitanti dell’Isola di Pasqua, uno sperduto fazzoletto di terra in mezzo all’oceano, hanno abbattuto l’ultimo albero, non avevano un altro luogo dove andare. Ma oggi chel’umanità è sostenuta da un’economia che opera su scala globale, l’intero pianeta è un’isola. E se finiranno le risorse, nemmenonoi avremo un altro posto dove andare.
Giancarlo Sturloni*
* Si occupa di formazione e consulenza in campo scientifico, sanitario e ambientale. Collabora con la Rai e scrive per l’Espresso, curando anche il blog d’autore Toxic Garden sui rischi ambientali. Insegna Comunicazione del rischio all’Università degli Studi di Udine e Governance e cittadinanza scientifica alla SISSA di Trieste. È autore di diversi libri tra cui Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico (Sironi, 2006). Con Daniela Minerva ha curato il volume Di cosa parliamo quando parliamo di medicina (Codice, 2007). Nel cassetto ha una laurea in fisica, un master in comunicazione della scienza e un dottorato in scienza e società.