Il Paradiso e l’inferno di Jón Kalman Stefánsson
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Paradiso e inferno” di Jón Kalman Stefánsson, edito da Iperborea (pag. 240 , 16.00 euro). Il libro è finalista della seconda edizione del Premio Bottari Lattes Grinzane per la sezione “Il Germoglio”, dedicata ai migliori libri di narrativa italiana o straniera pubblicati nell’ultimo anno.
Era negli anni in cui probabilmente eravamo ancora vivi. Nel mese di marzo, il mondo bianco di neve, anche se a dire il vero non del tutto, qui non diventa mai tutto bianco, per quanto la neve divori ogni cosa, per quanto cielo e mare gelino insieme e il freddo penetri nel più profondo del cuore, dove abitano i sogni, lì il bianco non ha mai la meglio. Le cinture rocciose dei monti si scrollano sempre quel candore di dosso e si stagliano nere come carbone sull’universo immacolato.
Si stagliano nere sopra il ragazzo e sopra Bárður mentre si allontanano dal Villaggio, il nostro inizio e la nostra fine, il centro del mondo. E un centro del mondo ridicolo e fiero. Camminano veloci, gambe giovani, fuoco che brucia, ma sono anche in gara contro il buio, com’è giusto, forse, perché la vita umana è sempre una gara contro il buio dell’universo, contro il tradimento, la crudeltà, la viltà, una gara che spesso sembra disperata, ma che ugualmente affrontiamo finché è viva la speranza. Ma Bárður e il ragazzo vogliono in realtà solo allontanarsi dalle tenebre o dall’oscurità del cielo per arrivare prima di loro alle baracche, le baracche dei pescatori, e ogni tanto camminano fianco a fianco che è la cosa migliore perché le orme che procedono appaiate sono un segno di solidarietà e allora la vita non è più tanto solitaria. Spesso però il sentiero non è che una mulattiera che si snoda come una serpe congelata nella neve, allora il ragazzo deve seguire Bárður, tenere lo sguardo fisso sulle sue scarpe, sulla bisaccia di pelle che porta in spalla, sulla massa di capelli scuri e la testa solidamente appoggiata sulle spalle larghe.
A volte attraversano coste pietrose, avanzano a piccoli passi su stretti sentieri a picco sopra le scogliere, il peggiore è quello di Ófæra, l’Insormontabile: una fune fissata alla roccia, il pendio a strapiombo sopra, la parete a strapiombo sotto e il mare verdastro che ti aspira e risucchia, un salto di trenta metri, la montagna si erge per più di seicento metri e la vetta è nascosta dalle nubi. Il mare da un lato, i monti alti e scoscesi dall’altro; ecco in pratica tutta la nostra storia. Le autorità e i commercianti regolano forse le nostre misere giornate, ma i monti e il mare regnano sulla nostra vita, sono il nostro destino, o per lo meno così la pensiamo qualche volta, e anche tu di sicuro ti sentiresti così se ti fossi svegliato e addormentato per decine di anni sotto le stesse montagne, se il tuo petto si fosse dilatato e contratto al respiro del mare sulle nostre barchette fragili come gusci di noce.
Non esiste quasi niente di più bello del mare nelle giornate serene o nelle notti terse, quando anche lui sogna e la luna è il suo sogno. Ma il mare non è per niente bello e lo odiamo più di qualsiasi altra cosa quando le onde si alzano anche di dieci metri sopra la barca, quando i frangenti la travolgono e il mare ci beve come miseri cuccioli, e poco importa quanto dimeniamo le braccia, quanto invochiamo Dio e Gesù, quello ci beve come miseri cuccioli. E lì tutti sono uguali. Le carogne e i giusti, i colossi e i mingherlini, i felici e gli afflitti. Qualche grido, qualche frenetico agitarsi di braccia e poi è come se non fossimo mai esistiti, il corpo inerte cola a picco, il sangue si raffredda, i ricordi si cancellano, i pesci vengono a sfregare il muso contro quelle labbra che, ancora ieri baciate, pronunciavano parole essenziali, sfiorano le spalle che portavano il figlioletto a cavalcioni e gli occhi che non vedono più nulla, posati sul fondo del mare. Il mare è blu, freddo e mai calmo, un mostro gigantesco che inspira, quasi sempre ci sostiene, ma qualche volta no e così noi affoghiamo; la storia dell’uomo non è poi tanto complicata.
Stanotte usciremo di sicuro, dice Bárður.
Hanno appena passato l’Insormontabile, la corda non ha ceduto, la montagna non li ha uccisi con le sue frane di pietre. Guardano entrambi il mare, e su in cielo il blu non è più del tutto blu, un sospetto di sera nell’aria, la spiaggia di fronte si è fatta indistinta, come se fosse arretrata, come se sprofondasse lontano, è una spiaggia quasi tutta bianca, dal bordo fino alla riva dell’acqua, per questo prende il nome della neve.
Sarebbe anche ora, risponde il ragazzo a Bárður, ansimando leggermente per la scarpinata. Due ore da quando si sono messi in marcia.
Jón Kalman Stefánsson*
*Jón Kalman Stefánsson (Reykjavík, 1963), ex professore e bibliotecario, è passato alla narrativa dopo tre raccolte poetiche. I suoi romanzi sono stati nominati più volte al Premio del Consiglio Nordico e pubblicati dalle più importanti case editrici europee.Luce d’estate ed è subito notte, di prossima pubblicazione da Iperborea, ha ricevuto nel 2005 il Premio Islandese per la Letteratura. Paradiso e inferno è stato definito il miglior romanzo islandese degli ultimi anni.