“Il paese dei veleni”. Viaggio nell’Italia del devastante “miracolo economico”
Il “miracolo” economico italiano è stato in realtà un disastro. Dietro la favola della crescita e del progresso si è nascosto un sistema industriale che ha avvelenato un Paese intero. La maggior parte della superficie nazionale, insieme alle persone che la abitano, è stata svenduta al profitto, con la complicità della politica. Oggi, che l’Italia non può più ignorare il prezzo troppo caro in termini di vite umane che ha versato e continua a versare, anche le bonifiche si rivelano un grande business. Da Taranto a Napoli, da Rosignano a Brescia, passando per il Lazio e la Sicilia, il libro “Il paese dei veleni” edito da Round Robin Editrice e curato da Andreina Baccaro e Antonio Musella, ripercorre la genesi del fenomeno biocidio che sta uccidendo il Belpaese. E delle comunità che hanno scelto di ribellarsi. Per la nostra rubrica Racconti d’ambiente pubblichiamo il primo capitolo “Belpaese dei veleni” di Gianfranco Bettin.
“Il Paese dei veleni non è tanto una controstoria dello sviluppo industriale italiano, ne è piuttosto la storia narrata dal versante che, per tutta un’epoca, è stato rimosso, negato. I costi di quello sviluppo, costi umani e ambientali, sono qui analizzati (a volte ipotizzati, a volte documentati puntualmente) settore per settore e sito per sito, da Taranto a Porto Marghera, da Gela a Perdas de Fogu, da Terzigno a Seveso a Casale Monferrato, e l’elenco potrebbe continuare a lungo seguendo la geografia (e la politica) del nostro sviluppo industriale per tutta la Penisola.
Colpisce, nella ricostruzione, seppure quasi solo accennato, il confronto con i luoghi com’erano prima. Ad esempio, il numero infinito di ulivi tagliati per ospitare l’Italsider (divenuta poi Ilva) a pochi metri dal quartiere Tamburi a Taranto. Vi si potrebbe aggiungere, tra l’altro, l’occupazione delle barene della laguna di Venezia dove è sorta la prima Porto Marghera, mentre la dislocazione della seconda, nel cuore di un centro abitato, è stata poi decisa, secondo le norme di attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Venezia del 1962, con un atto che è, insieme, una confessione, il segno di un’arroganza irresponsabile e cinica e il riflesso coerente di una visione del mondo e della storia.
Si scrive, in quell’atto, che da solo meriterebbe una class action contro i responsabili, che “nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori”.
In quel 1962, in realtà, la “zona industriale” di cui si parla nel piano è già in buona parte costruita e attiva (è la seconda zona di Marghera, quella dell’immenso petrolchimico) e l’atto formale, più che pianificarla, la legittima, posta com’è nel pieno di un centro abitato densamente popolato – circa duecentomila abitanti – e nel cuore di un ecosistema tra i più preziosi e fragili al mondo, e occupa già decine di migliaia di lavoratori. Ci vorranno quasi quarant’anni prima che quell’articolo del PRG venga cancellato, ma esso rappresenta la cifra, l’idea guida e il segreto, del tipo di sviluppo industriale che ha caratterizzato quasi intera l’esperienza italiana. È certo una storia di asservimento della salute umana e dell’ambiente alla logica del profitto, secondo la quale la natura, esattamente come la forza lavoro e la vita umana in generale, non sono che fattori della produzione (o della riproduzione) ed è ovvio sfruttarli fino in fondo. La legislazione ha seguito questa logica, fino a pochissimo tempo fa, come la politica economica, come l’azione non solo di ministri e governatori e sindaci e assessori, ma anche, come il libro documenta, di funzionari ministeriali e burocrati addetti ai lavori a ogni livello.
Appunto, Porto Marghera non nasce da un formale abuso. I suoi orrori, poi sanciti anche in tribunale dal celebre processo per le morti da CVM al petrolchimico, nasce da un atto di pianificazione formalmente legittimo. E così altrove, quasi sempre. Le stesse leggi successive, giunte tardive a modernizzare il paese anche sotto il profilo della tutela dei diritti dei lavoratori e dei cittadini oltre che dell’ambiente, non riusciranno davvero mai a innescare processi importanti di riqualificazione e nemmeno di risarcimento di territori e popolazioni. I casi in cui si giungerà ad esiti positivi resteranno rari e parziali, come il pur importantissimo caso citato del petrolchimico di Marghera, o quello più recente per l’eternit di Casale Monferrato. Il capitale, che ha guidato in questo modo lo sviluppo industriale italiano, aveva dalla sua la legge (o, a lungo, l’assenza di leggi) ma anche l’egemonia culturale oltre che quella politica.
Se è vero infatti che all’interno della fabbrica il contrasto sul salario o sulle misure base di sicurezza non è mai mancato, l’estensione all’intera questione del rapporto tra produzione e salute, tra fabbrica, territorio e ambiente, non ha mai davvero messo in discussione la centralità della crescita industriale e, con essa, del PIL e dei salari e redditi da essa derivanti. È solo con lo sviluppo dei movimenti ecologisti e con la presenza all’interno delle fabbriche stesse di lavoratori che metteranno in discussione questa centralità che l’egemonia dell’industrialismo verrà incrinata anche se non superata.
Questo libro documenta in pagine ricche di dati e di storie, come sia avvenuto che il Belpaese sia diventato anche il Paese dei veleni. Anche, certo, perché bello lo è rimasto, sia perchè la bellezza ereditata dai secoli e dai millenni, e perfino giuntaci dalle profondità abissali del tempo remoto, ha una sua forza potente di resistenza, sia perché quella bellezza ha trovato una difesa strenua nelle lotte e nelle coscienze di chi in nome di questo Paese è resistente e resiliente, come mostra questo libro inquietante e avvincente.
Gianfranco Bettin*
*Veneziano, classe 1955, Bettin è un sociologo e insegnante, eletto alla Camera dei Deputati nella XI e XV Legislatura per la Federazione dei Verdi.