Il mio nome è Book, cane meticcio
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Occhio di cane”, di Simone Falorni, edito da Edizioni ETS (pag. 226, 14.00 euro ).
Il mio nome è Book. Nonostante l’assonanza non ho niente a che vedere con il Buck del “Richiamo della Foresta” di Jack London. In comune, forse, ho solo il fatto di essere un cane meticcio fortemente somigliante ad un lupo. Voglio sottolineare il «somigliante» in quanto ho avuto poco a che fare con scorribande nella foresta, incontri con pionieri, sfide all’ultimo sangue con grizzly e altre gesta eroiche classicamente intese. Posso però vantare nobili origini. Mio padre era un lupo grigio americano vissuto nelle terre dei Navajo. Un capo, la responsabilità per il proprio branco gli era attaccata addosso come il suo fitto manto grigio sfumato da striature più scure. Lo sguardo di ghiaccio di un azzurro inteso e un portamento di rara eleganza. Diffidava degli uomini, fuggiva da loro. L’unico uomo che guardava con rispetto dalle colline che dominavano il territorio di caccia era Aquila Nera, il capo pellerossa che di tanto in tanto insieme agli uomini della sua tribù, a dorso dei cavalli pezzati, si apprestava alla battuta di caccia dei pochi bisonti rimasti cercando orgogliosamente di mantenere vive le proprio tradizioni.
Mio padre rispettava molto Aquila Nera e la sua gente, non li vedeva come gli uomini bianchi. Sempre uomini erano, ma più vicini al suo modo di vivere. Purtroppo l’incontro con gli uomini bianchi fu inevitabile. Nel bene e nel male. Un anno, non saprei dire quando, il cibo scarseggiava, quindi mio padre fu costretto ad avvicinarsi alle fattorie presenti nei dintorni della cittadina e assalire un po’ di pecore. Sapeva di fare una scorrettezza, ma doveva sfamare il suo branco. Ci furono degli scontri, degli spari e qualche compagno lupo ci rimise la pelle. Una notte, durante un appostamento nei dintorni di una fattoria da assalire, mio padre fu abbagliato dalla guardiana del gregge. Un cane pastore femmina naturalmente, non una razza precisa. Un incrocio tra il pastore tedesco, il pastore belga e il maremmano. Aveva un manto castano con qualche spruzzata bianca sparsa sui fianchi e sulle zampe anteriori. Il muso allungato e lunghe zanne che la rendevano molto familiare al branco dei lupi. Occhi scuri e profondi, ma soprattutto fieri. A mio padre ricordavano molto lo sguardo di Aquila Nera. Uno sguardo intenso, determinato, che emanava capacità di decidere nei momenti difficili. Lo sguardo della guardiana del gregge non lasciava dubbi. Se i lupi avessero attaccato, si sarebbe fatta ammazzare per difendere le pecore. Mio padre, con la sua proverbiale risolutezza, ebbe un attimo di incertezza nel dare l’ordine dell’attacco. Il destino volle che arrivasse in corsa il lupo «postino» informando la squadra d’attacco che erano tornate le alci nel lato nord della valle e che quindi la classica caccia poteva riprendere. La squadra si diresse a nord ma mio padre rimase, ordinando di avviarsi. Rimase tutta la notte ad osservare la guardiana. All’alba si fece avanti. Non vi fu neppure un guaito, un mezzo ululato, un ringhio. Si fissarono negli occhi. E fui concepito io. In realtà mi sono inventato tutto. Non ho la più pallida idea di come sono stato concepito e di chi fossero i miei genitori. Mi piace però pensarla così. La fortuna di essere figlio di nessuno è che posso immaginare tutte le storie che voglio. Questo aiuta a crearsi delle radici, una storia, una provenienza. Rispondere almeno alla domanda «da dove veniamo» è importate. Non conoscendo la risposta, la invento. Come mi pare.
Sulla domanda «dove andiamo» le cose si complicano e, nonostante la fantasia, qualche problemuccio ce l’ho. L’ unica cosa vera che ho detto finora è che sono un cane meticcio fortemente somigliante ad un lupo. Per aggiungere qualcosa di me posso dire che ho gli occhi celesti, un manto sale e pepe e una bella coda che muovo con orgoglio come per darmi uno stile, un portamento. Quello che ricordo è che sono nato e vissuto in un canile in una piccola cittadina immersa nella campagna ma non lontana dai centri maggiori. Ho più di quattro anni e ho passato gran parte del mio tempo con un ragazzo di nome Bruno, volontario amante dei cani che veniva ore e ore a farmi compagnia leggendo libri a voce alta, portando lo stereo, vedendo film sul suo portatile e proponendo talvolta monologhi originali. Bruno è un ricercatore, lavora all’Università e si occupa di antropologia. Ho imparato tante cose da Bruno. Cose che lui nemmeno si immagina. Per dirne una ho imparato a leggere. Mi mettevo a fianco di Bruno quando, quasi ritualmente, si sedeva per terra appoggiato al solito albero e con il libro in mano iniziava a leggere a voce alta. Io in realtà buttavo gli occhi sulle pagine e pian piano sono riuscito a decifrare quello che vedevo.
Un giorno, inaspettatamente è successo quello che tutti gli altri cani sognano. Avere un padrone. Una casa. Una nuova vita. Un ragazzo, che poi scoprirò chiamarsi Pablo, mi aveva scelto. La prima reazione fu di lusinga. Qualcuno si era accorto che esistevo. Cosa avrà trovato in me? Perché io fra tanti…? E via con le solite domande. Alla lusinga seguì il panico. Dovevo cambiare vita. Andare in una nuova casa. Non ascoltare più Bruno. Mio dio…non ero pronto. Alle prime feste bonarie che feci a Pablo quasi per riconoscenza seguì un forte imbarazzo, una puntina di gelo e, devo ammetterlo, dopo la ventesima carezza sulla testa, mi uscì un rantolo che non voglio chiamare ringhio…
Bruno prese in mano la situazione. Disse a Pablo di aspettare alla macchina che voleva salutarmi da solo. Bruno era un romanticone. «Book» mi disse «Pablo è una brava persona, lo conosco da tempo. Sta passando un brutto periodo e avere un cane gli potrà servire. Tu farai un po’ di bella vita. Pablo ha una discreta casa. Sarai coccolato e imparerai anche qualcosa. Pablo sa tante cose… non quante me, ma lo stimo.
Sono d’accordo che verrete a trovarmi e quando sarà fuori per lavoro ti potrà portare qui. Io ci sono». Volevo abbracciarlo. Gli saltai addosso e lo slinguazzai bene bene, poi con un po’ di guaiti mi indirizzai verso la macchina di Pablo. Una specie di monovolume che non era un monovolume, somigliava ad un SUV ma non lo era. Spaziosa ma piccola.
Una macchina senza uno stile definito. Diciamo senza personalità… Speriamo non rispecchi il padrone!!!!.
Simone Falorni*
*Simone Falorni, classe 1975, vive a San Miniato e si occupa di economia ecologica e naturopatia. Pubblica racconti sulla rubrica “Acrobati del caos: storie di personaggi in bilico” del magazine on line 89mainstreet.it. Ha pubblicato il romanzo “Pagliacci dentro” per la Giovane Holden Edizioni.