Il linguaggio segreto dei fiori
Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo oggi un estratto del libro “Il linguaggio segreto dei fiori”, di Vanessa Diffenbaugh, edito da Garzanti (pag. 368 , 18.60 euro ).
Erano otto anni che sognavo il fuoco. Gli alberi si incendiavano al mio passaggio, l’oceano bruciava. Mentre dormivo, il fumo dolciastro mi avvolgeva i capelli e il suo aroma si depositava come una nuvola sul cuscino quando mi alzavo. Tuttavia, appena il materasso cominciò a scottare balzai giù dal letto. L’odore penetrante della combustione non assomigliava affatto al tenue sentore caramellato dei miei sogni. Erano diversi come il gelsomino indiano e quello della Carolina: unione e separazione. Impossibile confonderli.
In piedi in mezzo alla stanza, individuai l’origine delle fiamme: una fila ordinata di fiammiferi in fondo al mio letto. Si erano accesi uno dopo l’altro e ardevano come piccoli pali di una staccionata lungo il bordo del materasso. Li guardai bruciare e provai un terrore spropositato davanti alle fiammelle tremolanti. Per un attimo ebbi di nuovo dieci anni, bambina disperata e insieme fiduciosa come non ero mai stata prima e non sarei più stata dopo di allora.
Ma il nudo materasso sintetico non prese fuoco com’era successo ai cardi in quel lontano ottobre: bruciò brevemente senza fiamma prima di spegnersi.
Era il mio diciottesimo compleanno.
Le ragazze sedevano irrequiete una accanto all’altra sul divano sfondato del soggiorno. I loro occhi passarono in rassegna il mio corpo fino ai piedi nudi senza traccia di bruciature. Una di loro sembrò sollevata, un’altra delusa. Se mi fossi fermata ancora una settimana, mi sarei ricordata ogni singola espressione di quelle facce. E mi sarei vendicata infilando loro chiodi arrugginiti nella suola delle scarpe e sassolini nelle ciotole di chili. Una volta, per uno sgarbo molto più lieve di un incendio, avevo appoggiato la punta arroventata di una gruccia per abiti sulla spalla di una compagna di stanza che dormiva.
Ma stavo per andarmene. Mancava solo un’ora e tutte loro lo sapevano.
La ragazza seduta al centro del divano si alzò. Sembrava giovane – quindici o sedici anni al massimo – ed era graziosa in un modo insolito per me: portamento elegante, pelle chiara, abiti nuovi. Non la riconobbi subito, ma quando attraversò la stanza notai qualcosa di familiare nel suo modo di camminare con le braccia piegate in posa aggressiva. Anche se era appena arrivata, non era una sconosciuta. Mi venne in mente che avevo già vissuto con lei negli anni dopo Elizabeth, quando ero al culmine della rabbia e della violenza.
Si fermò a pochi centimetri da me, con il mento proteso nello spazio che ci separava.
«Il fuoco», disse con voce pacata, «è da parte di tutte noi. Buon compleanno.»
Le ragazze si agitarono sul divano dietro di lei. Una si tirò su il cappuccio, un’altra si avvolse più stretta in una coperta. La luce del mattino guizzò lungo la fila di occhi abbassati, facendole sembrare all’improvviso più giovani, e in trappola. Le uniche vie d’uscita da una comunità alloggio come quella erano scappare, diventare maggiorenni o finire in un carcere minorile. Dopo una certa età non ti adottavano più, e accadeva raramente di tornare a casa, ammesso di averne una. Quelle ragazze sapevano cosa le aspettava e nei loro occhi si leggeva solo la paura: di me, delle compagne, della vita che si erano meritate o ritrovate a vivere per caso. Provai un’ondata inattesa di compassione. Io me ne stavo andando, loro erano costrette a restare.
Cercai di farmi strada verso la porta, ma la ragazza fece un passo di lato per bloccarmi.
«Spostati», dissi.
Una giovane volontaria che aveva fatto il turno di notte si affacciò dalla cucina. Non aveva ancora vent’anni e probabilmente facevo più paura a lei che a tutte le altre ragazze.
«Per favore», disse con voce supplichevole, «è la sua ultima mattina. Lasciala andare via in pace.»
Io ero in attesa, pronta a reagire, mentre la ragazza davanti a me contraeva gli addominali e stringeva i pugni. Ma dopo un momento scosse la testa e si voltò.
Avevo ancora un’ora prima che Meredith venisse a prendermi. Aprii la porta principale e uscii nella nebbia che avvolgeva le mattine di San Francisco. Il pavimento di cemento della veranda era freddo sotto i miei piedi nudi. Mi fermai a riflettere. Avevo pensato di attuare una ritorsione ostile contro le ragazze, ma adesso mi sentivo stranamente indulgente. Forse perché avevo diciotto anni e quell’esperienza per me era finita, riuscivo a perdonare il loro gesto. E prima di andarmene volevo dire qualcosa per fugare la paura dai loro occhi.
Percorsi Fell Street e svoltai in Market Street. Rallentai a un incrocio trafficato, incerta su che direzione prendere. Se fosse stato un altro giorno, avrei strappato le piante fiorite al parco di Duboce o saccheggiato la vegetazione incolta fra Page e Buchanan Street o rubato erbe al mercato del quartiere. Per quasi dieci anni avevo passato ogni momento libero a imparare nomi scientifici, descrizioni e significati dei fiori, ma fino a quel momento avevo utilizzato solo una piccola parte delle conoscenze acquisite. Avevo usato quasi sempre gli stessi fiori: un mazzo di calendule – dolore –, un cesto di cardi – misantropia –, un pizzico di basilico essiccato: odio. Avevo cambiato il mio modo di comunicare solo in rare occasioni: garofani rossi per la giudice quando avevo saputo che non sarei più tornata al vigneto di Elizabeth, e peonie per Meredith, ogni volta che riuscivo a trovarne. Sfogliai il mio dizionario mentale mentre cercavo un fiorista in Market Street.
Dopo tre isolati giunsi a un negozio di liquori e vidi mazzi di fiori avvolti nella carta che appassivano dentro i cesti davanti alla vetrina. Mi fermai a guardare: erano composizioni miste, per lo più, e comunicavano messaggi contrastanti. C’era solo una piccola scelta di mazzi omogenei: rose rosse e rosa, garofani striati quasi appassiti e un grappolo di dalie viola che spuntavano dal loro cono di carta. Dignità. Era quello il messaggio che volevo dare. Voltai le spalle allo specchio ad angolo sopra la porta del negozio, infilai i fiori sotto la giacca e mi misi a correre.
Quando arrivai alla comunità, ero senza fiato. Il soggiorno era vuoto. Entrai e tolsi le dalie dall’involucro. Erano perfette: strati di petali viola con i margini bianchi si dispiegavano dal centro dei fiori. Strappai con i denti l’elastico che li teneva uniti e liberai gli steli. Le ragazze non avrebbero capito il significato delle dalie, un criptico messaggio di incoraggiamento, eppure provai una sconosciuta sensazione di leggerezza mentre percorrevo il lungo corridoio e facevo scivolare un gambo sotto la porta chiusa di ogni stanza.
Vanessa Diffenbaugh*
*Per scrivere Il linguaggio segreto dei fiori Vanessa Diffenbaugh ha tratto ispirazione dalla sua esperienza come madre adottiva. Dopo aver studiato scrittura creativa alla Stanford, ha tenuto corsi di arte e scrittura ai bambini delle comunità di accoglienza. Lei e suo marito hanno tre figli e vivono a Cambridge, nel Massachusetts. Il linguaggio segreto dei fiori è il suo primo romanzo.