“Future Energy, Future Green”: il verde che c’è già e quello che verrà
Si terrà oggi a Milano l’incontro “Future Energy, Future Green. Il verde che c’è già e quello che verrà“, organizzato dalla Fondazione ISTUD in collaborazione con la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, per fare il punto sullo stato di salute e gli sviluppi della green economy nel nostro Paese e nel mondo. Il Workshop sarà anche l’occasione per presentare, in anteprima nazionale, il libro omonimo “Future Energy, Future Green” (A cura di Maurizio Guandalini e Victor Uckmar, Mondadori Università, pp. XXIV-632, € 42,00), in uscita il 18 gennaio 2018, ma già disponibile nelle librerie on line e prenotabile presso l’editore. Dal volume pubblichiamo, in esclusiva, un estratto del saggio di Andrea Gandiglio, direttore editoriale di Greenews.info, dal titolo “La green economy presa a pezzi non funziona“.
Partiamo da una constatazione: la green economy, presa “a pezzi” non funziona. O meglio, non così bene e così velocemente quanto avremmo necessità che funzionasse oggi. Perché non abbiamo più tempo: l’urgenza del contrasto ai cambiamenti climatici e il contenimento della temperatura globale entro i 2° C di aumento sono stati ampiamente ribaditi dall’UNFCCC e dall’Accordo di Parigi entrato in vigore nel 2016, mentre l’Overshoot Day , il giorno in cui il nostro Pianeta esaurisce la propria capacità di rigenerare le risorse naturali rinnovabili, entrando “in debito” e andando ad intaccare lo stock, cade quest’anno il 2 agosto, con quasi cinque mesi di anticipo rispetto alla fine dell’anno (già nel 1975 era il 28 novembre).
Nel nuovo rapporto globale sull’impatto dell’inquinamento ambientale sulla salute , l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 12,6 milioni di morti nel mondo siano attribuibili alle diverse forme di inquinamento ambientale. Ovvero una morte su 4, a livello mondiale, sarebbe determinata da fattori di rischio ambientale legati al luogo in cui si vive o si lavora. Di quali altre conferme abbiamo bisogno per decidere che modello di sviluppo perseguire?
E’ evidente, al di là di ogni ragionevole dubbio – e ben oltre il principio di precauzione – che il modello lineare e consumistico attuale non possa garantire una sostenibilità (ambientale, economica e di salute) di lunga distanza. Lo riconoscono ormai quasi tutti: politici, imprenditori, ricercatori. Ma da qui in avanti, sul fronte dell’azione, il meccanismo si inceppa e i risultati tardano ad arrivare. Sembra mancare una visione d’insieme, organica e strutturata.
La casella di posta elettronica della nostra redazione di Greenews.info è un buon osservatorio di quanto avviene quotidianamente, almeno dal 2009: centinaia di comunicati stampa in cui imprese di ogni settore e politici di ogni schieramento vantano interventi o progetti di riduzione dell’impatto ambientale di un qualche prodotto, processo o servizio. Tutto meritevole (quando non sia mero greenwashing), ma tutto insufficiente. Certo, da qualche parte si deve pur partire, ma l’impressione è che – salvo rarissimi casi virtuosi – manchi quasi totalmente, nei decisori pubblici e privati, la consapevolezza dell’urgenza e della complessità del problema.
Per genuina ignoranza, per mancanza di volontà o per furbizia (più che per carenza di fondi) si evita quasi sempre la dimensione dell’intervento “totale” che, beninteso, nessuno pretende venga realizzato tutto e subito, ma che dovrebbe perlomeno costituire l’orizzonte progettuale e di pianificazione di una strategia complessiva, di ampio respiro e visione, entro la quale far rientrare le singole iniziative. Ci si culla nella pericolosa illusione di “aver fatto la propria parte” nell’installare un impianto fotovoltaico sul tetto dell’azienda o nell’aver migliorato di qualche punto percentuale la raccolta differenziata del proprio Comune. Una sorta di autoassoluzione della propria coscienza che giustifica, in fondo, l’inazione sugli altri fronti. E la mobilità aziendale? Il cibo della mensa? La gestione delle risorse idriche? I materiali con cui è ristrutturata la sede?
Il mantra ripetuto all’infinito e acriticamente, in ogni convegno e dichiarazione pubblica, è che “dobbiamo farlo per i nostri figli e i nostri nipoti”… Un “altruismo” piuttosto patetico e poco credibile che serve solamente a lanciare la palla in avanti e che mi fa provocatoriamente desiderare politici e imprenditori più “egoisti”, che temano seriamente per la loro salute, qui ed ora, prima ancora che per le “generazioni future”…
Il mutamento dovrebbe essere anzitutto culturale e, di conseguenza, fluire nei modelli di business aziendali e di gestione della res publica. Non esiste infatti un problema più grave di altri a livello ambientale (quello dei cambiamenti climatici è stato adottato come “simbolo”, ma non per questo deve oscurare gli altri), serve un approccio “olistico”, altrimenti rischieremmo, per fare un esempio iperbolico, di “risolvere” oggi il problema dei trasporti con mezzi elettrici per tutti e trovarci domani a dover gestire lo smaltimento di tonnellate di batterie.
La rivoluzione culturale (senza alcun riferimento a Mao) è l’unica a poter aprire la strada a quella più prosaica, ma non meno fondamentale: la rivoluzione fiscale (senza alcun riferimento all’evasione), ovvero la trasformazione della fiscalità in senso ecologico. Non per accontentare gli ambientalisti o fare gli interessi di qualche lobby, ma semplicemente perché più logico e vantaggioso per la collettività. Come hanno ben dimostrato, conti alla mano, gli economisti dell’ECBA Project oggi i prezzi di prodotti e servizi non tengono in considerazione le “esternalità” ambientali, ovvero i danni causati dall’inquinamento e dal danneggiamento – spesso irreversibile – di beni comuni e risorse naturali quali acqua, aria e terra. Un costo occulto che ricade anche economicamente (oltre che in termini di salute) sulle spalle della collettività, dello Stato, dell’ente locale e, dunque, sul contribuente.
Oggi viviamo, in sostanza, in un mondo “al contrario”: chi più inquina non solo non paga di più per il danno che provoca, ma paradossalmente guadagna di più del suo competitor virtuoso, che non può godere – come sarebbe invece logico – di alcun vantaggio fiscale. A parte rarissimi casi sperimentali di “inversione dell’onere della prova” , è solitamente il produttore virtuoso (chi fa biologico, ad esempio) a dover sostenere maggiori costi per mettere in atto e certificare, tramite ente terzo, la propria virtuosità ecologica. E, di conseguenza, a risultare spesso meno competitivo nel prezzo finale, scatenando l’ira – invece che la simpatia – del consumatore, che lamenterà i costi eccessivi del biologico, della bioedilizia, dell’ecofashion ecc. immaginando, dietro a quelle cifre, non tanto l’assenza di incentivazione e di economie di scala, la travolgente burocrazia e la maggiore fatica umana, ma chissà quali ricche speculazioni da parte di produttori e commercianti. Per questo la “fiscalità ecologica” resta, insieme alla sensibilizzazione culturale (di cui non può che essere figlia), la chiave di volta di una green economy “totale” ed efficace. Non si tratta di aggiungere nuove tasse, come temono alcuni, ma di spostare e ridefinire, a parità di gettito, il carico fiscale.
Andrea Gandiglio*
* Fondatore del network Greengooo! (www.greengooo.com) e direttore editoriale di Greenews.info, è amministratore dell’impresa Greengrass Srl, che ha ideato e cura il progetto “GREENERIA” (www.greeneria.it).