Funky Tomato, la filiera del pomodoro bio che integra i migranti
Si può fare. Produrre conserve di pomodoro biologico nel Meridione senza sfruttamento del lavoro e favorendo l’integrazione degli stranieri. A coniugare lavoro equo e agricoltura bio, recuperando anche varietà antiche di piante, è stata Funky Tomato, una rete di soggetti (privati, associazioni onlus e aziende agricole) attiva dallo scorso anno in Puglia e Basilicata, che distribuisce il prodotto attraverso i gruppi d’acquisto solidale (GAS). “Siamo arrivati a organizzare tutta la filiera della salsa di pomodoro – racconta Giovanni Notarangelo, ingegnere delle energie rinnovabili, tra gli ideatori di Funky tomato – per offrire ai migranti un’alternativa di lavoro, così da andare oltre la mera assistenza. L’obiettivo era creare un progetto interamente etico, sostenibile e solidale”.
Nella zona di Venosa, nel Potentino, tra i casolari sorti nel Dopoguerra con la riforma agraria e oggi ricovero di braccianti stagionali, sono nati percorsi d’integrazione e rivendicazione di diritti, come l’accesso all’acqua o miglioramenti salariali. Prima una scuola d’italiano per migranti, nata 4 estati fa in una chiesa abbandonata. Poi l’assistenza medica di Medici per i diritti umani (MEDU), organizzazione che raccoglie anche dati preziosi per una mappatura della situazione. Così, grazie alle competenze multisettoriali dei soggetti coinvolti – dagli agricoltori all’ingegnere, dai braccianti a un tecnico agrario del pomodoro dell’industria – i fondatori di Funky Tomato sviluppano un piano economico per sostenere il processo produttivo garantendo condizioni dignitose nella retribuzione della manodopera e un prodotto tutto al naturale, senza chimica, dalla raccolta e trasformazione artigianali.
“Con un meccanismo di pre-acquisto, basato essenzialmente sulla fiducia, abbiamo raccolto gli ordini sulla falsariga dei GAS e programmato una certa quantità di prodotto” spiegano dall’organizzazione. Una volta germinati, in condizioni di temperatura e umidità particolari, i semi sono stati piantati nei campi di due aziende agricole lucane aderenti al progetto. Sono state seminate diverse varietà di pomodoro: un tondo, più usato per le conserve, il perino, e il salentino, una varietà simile al ciliegino. Non tutto fila liscio, però. “Il ragnetto rosso è arrivato a infestare le piante. Ma i danni sono stati limitati e abbiamo raccolto circa 150 quintali di pomodori, rispetto all’obiettivo di 200 quintali. E abbiamo comunque soddisfatto gli undicimila vasi di pomodoro ordinati in anticipo realizzando un surplus”.
In totale sono stati 18 mila i vasi prodotti, tra salsa, pelati e pomodoro in pezzi. L’etichetta “trasparente” rivela che dei 3 euro spesi per un barattolo di pomodoro, “il 55 per cento va a retribuire il lavoro, che è tutto lavoro artigianale – specifica Notarangelo – dalla raccolta a mano selezionata alla trasformazione”. Quest’ultima fase è avvenuta presso l’azienda agricola e agriturismo BioAgriSalute sull’Appennino lucano. Nessun costo di pubblicità, data la diffusione col passaparola, un sito web frutto di videomaker volontari e i social network. Quattro le persone che hanno avuto un regolare contratto di lavoro di due mesi e mezzo, a fronte di zone in cui la manodopera è compensata a cottimo e a condizioni miserrime. E tutti i costi sono stati così coperti.
A servire o vendere Funky Tomato ci pensano piccoli ristoranti, cooperative e negozi di Roma, Venezia, Bologna, Genova e Ravenna. Aborrita la grande distribuzione, per i profitti troppo bassi che versa ai produttori.
L’iniziativa, economicamente, si sostiene. Anche se ci sono margini migliorabili, come la proporzione tra il prodotto venduto venduto in pre-acquisto, dal prezzo ribassato, e gli ordini a prodotto inscatolato.
L’obiettivo è ora una diffusione dell’esperienza ad altre realtà, così da garantire agli stagionali, dopo il lavoro nei campi di pomodoro, la continuità occupazionale con la raccolta delle arance in Calabria, dove già opera con analoghi obiettivi SOS Rosarno, o con altri lavori in grado di sottrarli al caporalato. Infine, una ridefinizione del contributo dei volontari e la concentrazione della produzione e trasformazione in luoghi vicini, in modo da rendere ogni azienda agricola autonoma e azzerare il trasporto dei pomodori dai campi alla lavorazione. L’organizzazione “madre”, Funky Tomato, si trasformerebbe così in “incubatore” di altre imprese, limitandosi ad acquistare e rivendere i prodotti.
Obiettivo centrato? “Quasi – ammette Notarangelo – Purtroppo abbiamo scoperto che anche l’industria dei semi cela segmenti di lavoro sfruttato, in India e Cina. E poi per il trasporto dei prodotti finiti, per ora, ci siamo affidati ai corrieri convenzionali. Ma contiamo di riuscire a migliorare anche questi aspetti”.
Riuscirà quest’esperienza ad affermarsi come pratica virtuosa, al di là di quella realtà “protetta” dall’adesione e impegno civile di tante persone, in un lembo di Sud al riparo dalla criminalità organizzata? Certo è che finora non c’è stato nessun riconoscimento o sostegno da parte dello Stato o di Enti locali. Quella di Funky Tomato è per ora una storia che parla di terra, stagioni, lavoro, vita, fatica, migrazione. E’ una storia che parla di Sud, ma con un finale aperto a dignità e speranza.
Cristina Gentile