“Everest”, storia della prima ascesa al gigante del mondo
Pubblichiamo un estratto del libro “Everest” (Piano B Edizioni, 2020, pp. 252, €16,00), il racconto della prima ascesa al gigante del mondo nelle parole di Sir Edmund Hillary, che nel 1953 conquistò gli 8.848 metri della vetta insieme allo sherpa Tenzing Norgay. “Everest” è il resoconto appassionato e diretto di quella straordinaria impresa, composto quasi come un diario di bordo, nel quale l’odissea della leggendaria ascesa, l’agonia, le difficoltà e le privazioni – ma anche il trionfo e la gioia del successo – sono restituite dalla viva voce di Hillary con impressionante nitidezza.
Dalla spedizione del 1951 che portò alla scoperta della via per il Colle Sud, passando per l’estenuante addestramento himalayano del 1952 e fino alla vittoriosa spedizione del 1953, Hillary tratteggia le condizioni spietate della montagna, i costanti imprevisti, il timore, la brutalità delle condizioni meteorologiche, la difficoltà per acclimatarsi a quote che portano il corpo umano al limite della sopportazione. Ma oltre al resoconto dell’ascesa, “Everest” è anche una testimonianza della forza dello spirito umano, la storia di coraggio e resilienza di un gruppo di uomini che, spinti da un sogno, riuscirono in ciò che fino ad allora era ritenuto impossibile.
Impiegammo soltanto tre giorni per arrivare ai piedi dell’Everest da Namche Bazar, ma per molte ragioni furono i tre giorni più affascinanti e movimentati della mia vita. I fiumi spumeggiavano sul fondo di grandi gole, i fianchi delle montagne erano vestiti di dense foreste rotte qua e là da uno squarcio di nuda roccia o da un pinnacolo aguzzo. Poi, sui colori dell’autunno, torreggiarono le incredibili cime del Khumbu, con i loro possenti fianchi striati di ghiaccio, terribili gigantesche pareti, creste di ghiaccio affilate come lame. Queste cime non superavano i 6700 metri, ma stentavo a credere che un giorno avrebbero potuto essere scalate. Su uno sperone boscoso stava appollaiato il monastero di Tengboche, uno dei santuari degli sherpa. Un tempio non potrebbe innalzarsi su uno scenario più solenne: è avvolto da un’aura di pace e di meditazione, in un’atmosfera senza tempo. I lama furono assai gentili con noi e ci trattarono da gran signori; ci fu molto difficile sottrarci alla loro ospitalità.
Quando ce ne andammo il tempo si guastò, e nella salita al margine del ghiacciaio Khumbu incontrammo frequenti nevicate. Cominciavamo a provare gli inevitabili effetti dell’altura: Riddiford e io, che recentemente eravamo stati a notevoli altezze, ci sentivamo abbastanza bene e così Shipton, che sembrava acclimatarsi automaticamente; ma gli altri del gruppo erano piuttosto provati. Ci vollero parecchi giorni di esplorazione prima di trovare un Campo Base adatto, e finalmente piantammo le tende a quota 5250 metri, in un avvallamento laterale del ghiacciaio, accanto a un’eccellente sorgente.
Nel pomeriggio successivo al nostro arrivo al Campo Base, Shipton e io, presi i binocoli, andammo in escursione sulla morena posta dietro il campo; da questo punto si godeva di un’affascinante vista dell’Everest, immenso e remoto con il suo lungo e grazioso pennacchio di neve sollevata dal vento. Appariva distante come sempre. Esaminammo con interesse il versante meridionale della montagna: sapevamo che da quella parte non c’era un accesso diretto, poiché la via era sbarrata da una valle colma di ghiacci chiamata Western Cwm. Nessun uomo aveva mai spinto lo sguardo nel Western Cwm, e noi non nutrivamo molte speranze che esistesse un passaggio tra i suoi terribili pendii. Farsi strada in quel luogo sarebbe stato un lavoro formidabile: da ogni lato era circondato da un’immensa muraglia di montagne oltre i 7500 metri.
C’era solo una breccia, là dove il ghiacciaio riempiva la valle e defluiva attraverso una stretta fenditura fra tremendi precipizi del crestone occidentale dell’Everest e il Nuptse. In un solo salto questo ghiacciaio, costretto nella stretta breccia, cadeva sul sottostante ghiacciaio Khumbu, settecentocinquanta metri più in basso, in un caos di blocchi di ghiaccio e crepacci. La seraccata inferiore appariva praticabile, a guardarla con il binocolo; tuttavia facemmo ritorno al campo tutt’altro che ottimisti.
La mattina del 30 settembre era una giornata bella e luminosa. Quattro uomini – Riddiford, Bourdillon, Ward e Pasaix che nel Garhwal si era rivelato un forte scalatore – partirono per esaminare la seraccata. Shipton volle salire su una certa posizione dalla quale osservare il Western Cwm, e mi invitò a unirmi a lui. Lasciato il campo ci portammo fino alla base di una cresta che scende dal Pumori, una cima alta 7070 metri. Ci sentivamo bene e salivamo regolarmente. Poi l’altitudine cominciò a farsi sentire; nell’aria rarefatta i nostri polmoni faticavano molto e i movimenti rapidi erano divenuti ormai impossibili. A quota 5800 sostammo per riposarci e ammirare il panorama che si apriva intorno a noi; poi attaccammo gli ultimi pendii. Ci portammo su un ripido banco roccioso, scavammo dei gradini in una neve molto soda e finalmente ci abbandonammo con sollievo su una piccola sporgenza a 6100 metri. Quasi senza badarci – poiché da quel punto non speravo di riuscire a vedere molto – gettai un’occhiata verso il Western Cwm e, inaspettatamente, tutta la valle si rivelò ai nostri occhi! Un lungo e stretto bacino coperto di neve partiva dalla sommità della seraccata e si innalzava fino alla scoscesa parete del Lhotse, che costituiva la testata del Western Cwm. E proprio quando lo stesso pensiero stava per prendere forma nella mia mente, Shipton esclamò: «Lì! Lì c’è un passaggio!»…
Edmund Hillary