“Del comune”: la privatizzazione delle risorse e il movimento dei commons
Le battaglie per la «democrazia reale», il «movimento delle piazze», le nuove «primavere» dei popoli, le lotte studentesche contro l’università capitalista, le mobilitazioni per il controllo popolare della distribuzione idrica non sono affatto eventi caotici e aleatori, esplosioni accidentali e passeggere, jacqueries disperse e prive di scopo. Secondo gli studiosi francesi Christian Laval e Pierre Dardot, autori del libro “Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo“, da poco pubblicato dalla casa editrice DeriveApprodi, queste lotte politiche rispondono alla razionalità politica del comune, sono ricerche collettive di nuove forme di democrazia. L’obiettivo del volume è identificare nel principio politico del comune il senso dei movimenti, delle lotte e dei discorsi che un po’ ovunque nel mondo, in questi ultimi anni, si sono opposti alla razionalità neoliberista. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto del terzo capitolo, intitolato “La grande appropriazione e il ritorno dei commons“.
Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del XX secolo, l’enorme trasferimento di beni e di capitali dallo Stato al settore privato – in questo si condensavano le cosiddette «terapie d’urto» o le «transizioni verso l’economia di mercato» negli ex paesi comunisti – è stato uno dei fattori determinanti di questa grande appropriazione. Ma anche alcuni paesi capitalisti del «centro» e della «periferia» hanno aperto al capitale ambiti di attività economica e settori sociali che dalla fine del XIX secolo era sottratti al suo controllo diretto: cessioni al settore privato di aziende ferroviarie pubbliche, imprese nazionali di estrazione mineraria, siderurgia, cantieri navali, produzione e distribuzione dell’acqua, gas ed elettricità, servizi postali e di telecomunicazioni, televisione; parziale privatizzazione degli ammortizzatori sociali, dei sistemi di previdenza, dell’insegnamento superiore, dell’istruzione, della sanità; introduzione di meccanismi concorrenziali e di criteri di redditività nel sistema dei servizi pubblici in genere. Gli effetti sui rapporti sociali sono stati considerevoli. In circa trent’anni sono cresciute enormemente le diseguaglianze, sono esplose le ricchezze dei più ricchi, la speculazione edilizia ha accelerato i processi di segregazione urbana. (…)
Questo movimento generale di enclosure sarebbe diretto dalle grandi imprese multinazionali sostenute dai governi, a loro volta sottomessi alla logica del mercato. (…) Si considerino, a mo’ di esempio di questa espansione, l’espropriazione del controllo sulle sementi, perpetrata ai danni dei contadini indigeni da parte delle grandi multinazionali dell’agroalimentare quali Monsanto; oppure, lo sviluppo di brevetti testati sul mondo vivente sotto la pressione delle imprese biotech; o ancora il monopolio, da parte di giganti dell’informatica, come Microsoft, sui brevetti dei software più diffusi nel mondo.
Denunciare le «nuove enclosures», dunque, significa porre l’accento su un insieme di tendenze inseparabili dall’attuale globalizzazione capitalistica. La parola «recinzione», d’altronde, designa la pratica dell’accaparramento di risorse naturali e di terre che ancora accade, su larga scala, nel mondo. Prendiamo in considerazione due esempi particolarmente eloquenti: quello delle terre e quello dell’acqua. Relativamente al primo, si consideri il fenomeno del land grabbing, che di fatto aggrava gli effetti destrutturanti del libero scambio, dell’agrobusiness e delle biotecnologie sulle agricolture contadine di tutto il mondo. Si tratta di una pratica di accaparramento delle terre coltivabili dei paesi del Sud – Africa subsahariana, Indonesia, Filippine, Brasile, Argentina, Uruguay ecc. – attraverso l’acquisizione e soprattutto l’affitto di terre per lunghi periodi (dai 25 ai 99 anni). Questo accaparramento, che rappresenta già circa il 2% delle terre coltivabili del pianeta, avviene per mano di imprese sia multinazionali sia statali, e specialmente di Stati emergenti del Sud (Cina, India) o di Stati del Nord (Stati Uniti, Gran Bretagna), particolarmente desiderosi di assicurarsi approvvigionamenti alimentari ed energetici e di far crescere i profitti delle proprie imprese e dei propri centri finanziari grazie alla speculazione sulle terre e sui prezzi dei prodotti agricoli. Questa tendenza ha subìto un’impennata a seguito della crisi alimentare del 2007 e si è poi alimentata con la speculazione finanziaria. Nel 2011, l’accaparramento ha riguardato circa 80 milioni di ettari di terreno. Le transazioni, quasi tutte realizzate senza consultare le popolazioni locali, spesso avvengono tra gli Stati che controllano terre e investitori, come accade ad esempio per numerosi paesi africani.
Gli effetti del land grabbing sull’agricoltura contadina, sulla natura dei prodotti coltivati e sull’alimentazione delle popolazioni locali fanno pensare che questa applicazione diretta e brutale del potere del capitale globale sulle terre agricole dei paesi poveri non sia che una riproposizione di quelle stesse dinamiche di mercificazione della terra, avvenute in Europa qualche secolo fa, in grado di sortire conseguenze dello stesso tipo, ma su scala decisamente più vasta. L’innalzamento dei prezzi degli appezzamenti di terreno ancora disponibili, l’interdizione dell’accesso alle terre un tempo comuni, l’accaparramento delle terre più fertili, la scelta delle produzioni destinate all’esportazione, la diffusione degli Ogm e dei relativi erbicidi e pesticidi si traducono ovunque, di fatto, in un’espropriazione nei confronti dei contadini, nel loro esodo verso le bidonville delle megalopoli del Terzo mondo, nell’aumento dei prezzi delle merci per tutta la popolazione. Questa spettacolare appropriazione, quindi, non fa che completare la gamma degli strumenti e delle pratiche che hanno limitato le produzioni alimentari a favore delle colture d’esportazione, accelerando drammaticamente la trasformazione capitalistica dell’agricoltura e la distruzione delle comunità rurali.
L’appropriazione delle terre agricole è intrinsecamente connessa all’accaparramento dell’acqua, anch’essa funzionale alle grandi colture d’esportazione. Il controllo capitalistico dell’acqua, chiaramente, è un altro esempio che presenta significative similitudini con i meccanismi storici di espropriazione dei commons. (…)
Al di là di questi due esempi, appare chiaro come sia in realtà tutto l’«ambiente» umano a essere implicato, in diverse forme, in questa estensione del mercato della proprietà. Beni di prima necessità, come gli alimenti o i medicinali, sono disciplinati in modo sempre più fitto da logiche di mercato imposte dagli oligopoli globali; le città, le strade, le piazze e i trasporti pubblici sono trasformati in spazi commerciali e pubblicitari; le istituzioni culturali, gli impianti sportivi, i luoghi dello svago e del riposo sono sempre meno accessibili a chi non è «cliente»; i servizi pubblici – dagli ospedali alle scuole, passando per le carceri – sono edificati e cogestiti da imprese private; le istituzioni pubbliche della ricerca e le università sono «controllate» al fine di massimizzare la redditività; le foreste, i mari, le spiagge e i sottosuoli sono sottoposti a forme di sfruttamento industriale sempre più intensive; l’intero patrimonio culturale dell’«ambito pubblico» è chiamato a farsi «capitale» che musei o biblioteche devono valorizzare. Questa grande appropriazione, in tutta la pluralità delle sue manifestazioni, determina fenomeni consistenti di esclusione e di disuguaglianza; accelera il disastro ecologico; rende la cultura e la comunicazione prodotti commerciali; intensifica il processo di atomizzazione della società in individui-consumatori indifferenti alle sorti comuni.
Christian Laval* e Pierre Dardot**
* Sociologo, svolge attività di ricerca presso l’università di Parigi X. Dal 2004, anima insieme a Pierre Dardot il gruppo di ricerca «Question Marx».
* Filosofo e docente, è autore, spesso insieme al collega Christian Laval, di saggi su Marx, Hegel e il capitalismo globale. Di recente pubblicazione in francese, la prestigiosa monografia “Marx, prénom Karl” (Gallimard 2012).