COP23, l’ennesimo siparietto inutile e inconcludente
Forse sarebbe ora di cambiare il “format”. Perché il Pianeta ha un limite e anche la pazienza dei cittadini, degli imprenditori, degli amministratori locali più virtuosi e di tutti coloro che qualcosa di concreto – per ridurre i rischi dei cambiamenti climatici – lo stanno già facendo da anni. Lo spettacolo della “COP” (la Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite) è diventato una farsa patetica almeno dal 2009, anno del fallimento della COP 15 di Copenhagen, sulla quale la “società civile” e le associazioni ambientaliste avevano riversato grandi aspettative.
Il copione è sempre lo stesso: nessuna nazione che ospita il meeting ha intenzione di ammettere il fallimento e, al termine di ogni plenaria finale, bisogna sempre trovare qualcosa di buono, rivendicare un qualche “importante passo avanti”, di cui nessuno, in realtà, vedrà mai i risultati.
La COP21 di Parigi, in particolare, secondo la grandeur e l’ambizione francesi, doveva essere un successo. Doveva, anche per restituire un minimo di credibilità alla diplomazia climatica internazionale, e quindi le si è attribuito ad honorem, un successo tutt’altro che evidente. “Parigi – scrive l’ex ministro Alberto Clò nel nuovo saggio “Energia e Clima” – segna, in sostanza, l’affermazione di un nuovo paradigma nella politica climatica (ma meglio sarebbe parlare di rottura di quello precedente), ove a quel che era ambientalmente e scientificamente desiderabile si è sostituito quel che si ritiene politicamente e pragmaticamente fattibile”. Vale a dire il primato delle esigenze politiche ed elettorali sulle urgenze ambientali. Come se al Pianeta importasse qualcosa di quanto è politicamente fattibile. O come se un tumore attendesse a colpire per lasciarci comodamente realizzare, nella vita, quello che desideriamo, senza fretta e ai nostri ritmi. Sarebbe bello, ma il mondo non funziona così. Ecco perché il climatologo James Hansen ha definito, senza mezzi termini, l’Accordo di Parigi: «una frode […] nessuna azione, solo promesse».
Il famoso “vincolo” emerso (a fatica) da Parigi riguarda, del resto, il contenimento della temperatura globale entro i 2°C di innalzamento, ma non i target di emissioni necessari a raggiungere quell’obiettivo! Dopo la COP 21 di Parigi, sembrava dunque non si potesse fare a meno della COP 22 di Marrakech, nel 2016, per “dare le gambe” al precedente accordo. Ma anche qui, come scrivevamo un anno fa, “la decisione più ‘importante’, presa dai 196 stati partecipanti, è stata quella di definire che, entro dicembre 2018, andrà fissato il regolamento che dovrà determinare in quale modo i Paesi monitoreranno i loro impegni per la riduzione dei gas serra“. Leggi: palla in avanti. E la COP 23 di Bonn, chiusasi venerdì scorso sotto la presidenza delle Isole Fiji? Che altro ha fatto? Niente, se non passare il cerino, come previsto, alla COP 24 del 2018 a Katowice, in Polonia. Altri 12 mesi, 365 giorni, 8.760 ore di emissioni, inquinamento, consumo di risorse naturali.
Non credo possa esistere un’immagine peggiore di inconcludenza agli occhi di cittadini già stremati, quanto mai, dall’inefficacia e inadeguatezza delle rispettive politiche nazionali ad affrontare la complessità degli anni di crisi economica, ambientale, sociale. All’immagine del politico nostrano, incollato al cadreghino e al vitalizio e attento solo ai venti elettorali, si aggiunge, nell’immaginario collettivo, quella del “diplomatico del clima”, un personaggio distinto e sempre posato (e chi gli mette fretta!), quasi aristocratico, intento a fare tanti bei viaggi in giro per il mondo e coniare tante eleganti formule vuote, per dilatare all’infinito il tempo delle decisioni.
Visto che gli Obama sono serviti a poco forse l’ultima salvezza per il clima rimane veramente Donald Trump. Chissà che continuando a snobbare i cambiamenti climatici il presidente americano più insensibile di sempre ai temi ambientali non riesca – come già sta succedendo con il US Climate Action Network - a stimolare una seria ed efficace coalizione di imprenditori, cittadini e amministratori locali, che per forma mentale non riescono proprio (per nostra fortuna) a stare fermi ad aspettare.
Andrea Gandiglio