COP21: come si presenta l’UE all’appuntamento di Parigi
“L’UE punta ad un accordo globale vincolante al termine della Conferenza di Parigi. Siamo stati i primi a definire il nostro impegno a favore del clima nel marzo scorso e il nostro è ancora il contributo più significativo. Il nostro obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 2 ºC da qui alla fine del secolo è ancora a portata di mano. Stiamo assistendo alla nascita di un movimento mondiale senza precedenti. Spero che ciò si traduca in azioni concrete nel corso dei negoziati. Se si otterranno risultati fattivi a Parigi, l’umanità avrà a sua disposizione un sistema internazionale per contrastare efficacemente i cambiamenti climatici”. Queste le parole del Presidente della Commissione Europea Juncker alla vigilia della COP21.
Al quale si aggiunge il Commissario responsabile dell’azione per il clima e l’energia Arias Cañete che a Parigi è anche capo negoziatore per l’UE. Cañete considera la conferenza un’opportunità storica che non possiamo sprecare. E, ha sostenuto, che la credibilità dell’accordo dipenderà da tre elementi chiave: un obiettivo di lungo termine, analisi periodiche per rafforzare l’ambizione nel corso del tempo e norme rigorose in materia di trasparenza e responsabilità.
La Commissione Europea sembra quindi convinta – almeno nelle dichiarazioni ufficiali – che alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si terrà nella capitale francese dal 30 novembre all’11 dicembre, l’accordo globale sarà raggiunto e conterrà degli impegni vincolanti. Ma al di là dell’autocompiacimento qual è la posizione con la quale l’UE arriva a Parigi?
Per l’Unione Europea, il nuovo accordo deve essere un chiaro segnale della volontà dei governi di ridurre le emissioni in misura sufficiente a mantenere, da qui alla fine del secolo, l’aumento della temperatura al di sotto del limite concordato (2 ºC). Per ‘accordo credibile’ si intende: 1. una visione globale per un obiettivo a lungo termine, che funga da segnale per le parti interessate, tra cui le imprese, gli investitori e il pubblico, della volontà di passare a un’economia a basse emissioni di carbonio; 2. un meccanismo di valutazione periodica; 3. un solido sistema di trasparenza e responsabilità affinché le parti e i soggetti interessati possano ragionevolmente sperare che le promesse saranno mantenute.
Sul fronte del finanziamenti a favore del clima, invece, l’UE mantiene il proprio impegno per conseguire, congiuntamente agli Stati più ricchi, l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 a favore dell’azione per il clima nei Paesi in via di sviluppo.
C’è poi il capitolo dedicato all’adattamento. L’Unione Europea ritiene, infatti, che un’azione ambiziosa per prepararsi e rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici costituisca l’elemento centrale di un accordo equilibrato.
Ma quali saranno gli ostacoli che la proposta europea incontrerà in fase negoziale?
Prima di tutto c’è da capire la posizione degli Stati Uniti. Il segretario di Stato USA John Kerry ha già messo in dubbio, nelle settimane scorse, il carattere vincolante dell’accordo. Gli Usa “sono contrari a un accordo vincolante” per motivi interni legati alla ricerca del consenso al Congresso, il negoziato però “si basa sul consenso di oltre 190 Paesi” e ancora oggi gli statunitensi “non hanno presentato un approccio alternativo” ha detto il Commissario europeo al Clima, ricordando che non solo l’UE, ma anche molti Paesi in via di sviluppo, dalle isole del Pacifico al gruppo africano, “vogliono un accordo vincolante che includa gli Stati Uniti”. Perché l’UE vuole evitare di ripetere l’esperienza di Kyoto, il trattato internazionale sul clima firmato nel 1997 e non sottoscritto dagli Stati Uniti per la presunta assenza di impegni chiari e vincolanti per i Paesi meno sviluppati in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. L’Europa è poi consapevole che un coinvolgimento delle economia emergenti – su tutti i Paesi cosiddetti “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) – si lega all’eventuale impegno statunitense.
Tuttavia, i problemi non sono solo esterni all’UE, ma anche interni. Due in particolare. Il primo riguarda la Polonia. La quale, per mano del nuovo presidente Andrzej Duda, ha posto il veto all’emendamento di Doha, che proroga il protocollo di Kyoto. Cañete sembra però convinto che la Polonia “onorerà i suoi impegni” con l’UE. “Abbiamo un nostro mandato per i negoziati e Varsavia è stata molto attiva nel modellare la versione finale” ha sottolineato il Commissario, affermando che quindi a Parigi “la Polonia sarà sulla stessa barca” dell’Unione Europea.
Il secondo fianco debole in seno al Vecchio Continente è, un po’ a sorpresa, il Belgio. Un Paese a forte tradizione green che però, in questa occasione paga lo scotto di avere un sistema amministrativo talmente frammentato da non riuscire a trovare una voce unica a livello federale. Il Governo, infatti, non è ancora riuscito a formulare un documento che metta d’accordo le diverse Regioni autonome che compongono lo Stato. Va ricordato, infatti che, con la nuova formula ogni Paese ha pubblicato o sta pubblicando il proprio contributo nazionale che presenta gli sforzi che si impegna a realizzare. Sono infatti 196 i firmatari (195 Stati più l’Unione Europea).
In contemporanea con l’apertura della COP21 la Commissione Europea ha, inoltre, ufficialmente inaugurato l’Istituito ICOS RI - Integrated Carbon Observation System (Sistema Integrato di Osservazione sul Carbonio), una nuova infrastruttura di ricerca pan- europea che ha l’obiettivo di fornire osservazioni di lungo periodo sui gas serra in tutta Europa. I membri fondatori di ICOS ERIC sono otto: Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svezia e Finlandia (sede dell’istituto), e Svizzera, che al momento fa parte dell’iniziativa in qualità di osservatore. Uno strumento importante che, se l’accordo di Parigi sarà vincolante, permetterà al Vecchio Continente di monitorare gli eventuali progressi in maniera ancor più efficace.
Beatrice Credi