COP 21, un accordo “storico” con tanti limiti e incertezze sul futuro
“Le parole devono ora essere tradotte in atti concreti”, con questa frase Monica Frassoni – Copresidente del Partito Verde Europeo – ha commentato l’accordo sul clima raggiunto nella giornata di sabato alla COP21 di Parigi. E forse non c’è sintesi più efficace. “L’Unione Europea – ha aggiunto – ha ora un obbligo di coerenza con quanto adottato”.
In effetti, al di là del contenuto specifico del documento, il succo sta tutto qui. Negli sforzi e nella concreta volontà che verranno profusi da qui in avanti. I risultati della conferenza di Parigi – per quanto significativi dal punto di vista della diplomazia internazionale – non garantiscono, infatti, che riusciremo a evitare il cambiamento climatico galoppante.
Chiarito questo punto fondamentale, vediamo quali obiettivi contiene l’accordo. Il testo prevede l’imperativo di contenere l’aumento della temperatura globale del pianeta “ben al di sotto dei 2°C”, perseguendo idealmente il più ambizioso goal di +1,5°C, in linea con quanto suggerito anche dalle ultime ricerche scientifiche. Tuttavia, non viene fornita una chiara road map, né obiettivi a breve termine. Eppure per limitare il riscaldamento a 2°C dobbiamo tagliare le emissioni, rispetto al 2010, del 40-70% entro il 2050. Per raggiungere il target di 1,5°C il taglio, poi, deve essere ancora più sostanziale: tra il 70 e il 95%, sempre entro il 2050. A poco, quindi è servito il tentativo dell’Unione Europea, a metà dei negoziati, di unire le forze con 79 nazioni più povere e vulnerabili al fine di riuscire a strappare un accordo più ambizioso.
Mancano anche obiettivi in merito alle emissioni dei trasporti internazionali per via area e marittima, che erano invece parte del testo di Copenhagen, e questa è una sconfitta per l’UE, che si era portata avanti su questo piano.
Le associazioni ambientaliste europee, sostanzialmente soddisfatte, sottolineano però altri punti deboli dell’accordo. Il fatto, per esempio, che trascuri i popoli più vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici non risolvendo un’intrinseca e radicata ingiustizia. Secondo il testo, infatti, i paesi sviluppati possono limitarsi a “fornire le risorse finanziarie per assistere i Paesi in via di sviluppo”. I 100 miliardi l’anno, a partire dal 2020 (previsti dall’100 billion goal), sono un punto di partenza e ulteriori fondi dovranno essere stanziati in una misura che sarà decisa nel 2025. Tuttavia, mancano dettagli sulle effettive dimensioni di questi singoli finanziamenti, su quando e su come saranno forniti. Mentre è noto che non saranno interamente “donazioni” a fondo perduto, ma anche prestiti a titolo oneroso. Il tema più delicato è stato proprio quello dei risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili (loss and damage) subìti dai Paesi vulnerabili a un cambiamento climatico innescato dalle economie avanzate, a causa della forte opposizione di Unione Europea e degli Stati Uniti a qualsiasi sistema coercitivo che li esponga a richieste di indennizzo da parte dei Paesi poveri.
L’accordo di Parigi, benché definito “storico” – non senza ragioni – è dunque un testo molto più debole di quanto sperato dagli osservatori più attenti e soprattutto di quanto realmente necessario.
La cerimonia ufficiale di firma sarà il 22 aprile 2016 a New York e l’entrata in vigore del trattato, non prima del 2020, avverrà a 30 giorni da quando almeno 55 parti responsabili di almeno il 55% delle emissioni di gas serra lo avranno ratificato.
Beatrice Credi