Cooperativa Girolomoni: alle origini della pasta integrale biologica
Un pezzo di storia del biologico è cominciato qui, sulla collina di Montebello, a pochi chilometri da Urbino, nelle Marche settentrionali. I campi che in estate sembrano immense distese dorate d’inverno sono ricoperti di neve, quella che secondo gli antichi proverbi assicura il pane. Pane di cui all’inizio dell’avventura della Cooperativa Girolomoni – nata come cooperativa Alce Nero – c’era estremo bisogno.
Era la fine degli anni Settanta, di biologico si parlava pochissimo, mancavano ancora quindici anni ai primi regolamenti europei sull’argomento, e tornare alle campagne non era per niente semplice. Per il fondatore Gino Girolomoni, uomo caparbio e determinato, affascinato dall’idea di un’agricoltura senza chimica e insieme dal desiderio di sottrarre alla rovina l’antico monastero di Montebello, era anche una sfida culturale: “Se i nostri padri sono vissuti su queste campagne per secoli, senza strade maestre, senza elettricità, senza telefono, senza acqua in casa, senza soldi, riuscendo a far sposare i figli e a diventare vecchi, noi, che disponiamo di tutte queste cose, possibile che non ne siamo capaci?”, scriveva nel 2002 nel libro “Alce nero grida”.
A quasi quarant’anni di distanza, molte cose sono cambiate: Girolomoni è scomparso a marzo 2012, dopo aver visto quella piccola cooperativa partita con una produzione di latticini e farine da vendere nei dintorni diventare una realtà di riferimento per il biologico a livello mondiale, in particolare nel settore della pasta integrale. In mezzo, ci sono stati anni di difficoltà e fame, sequestri di pasta (perché se integrale, sostenevano le autorità, non poteva chiamarsi così), cambi di nome a causa della cessione del marchio Alce Nero.
Oggi la cooperativa, guidata dal figlio di Girolomoni, Giovanni, 30 anni, conta 33 soci e 36 dipendenti. Il fatturato 2012 è stato pari a 7,5 milioni di euro, il 10% in più rispetto all’anno precedente. Un esempio di come anche le cooperative di piccoli produttori, di solito associate a economie di piccola scala, possano arrivare diventare realtà economiche importanti. Il 90% del fatturato deriva dall’export, che raggiunge i cinque continenti, dagli Stati Uniti al Giappone, fino alla Nuova Zelanda. Il prodotto principale della cooperativa rimane la pasta: “Gli investimenti futuri e le idee vanno soprattutto nel costruire una filiera della pasta sempre più importante dal punto di vista della sicurezza, della qualità e della sostenibilità ambientale”, spiega il neopresidente. Già oggi “sono un centinaio le aziende agricole coinvolte direttamente e il grano è comunque tutto Italiano, principalmente di filiera marchigiana. Quando possiamo però cerchiamo anche di promuovere e commercializzare prodotti di piccole aziende biologiche, e l’ultimo prodotto arrivato è l’aceto balsamico di Modena dell’azienda agricola Fattoria degli Orsi”, a cui si aggiungono farine, cereali, legumi, passate di pomodoro. Alle sperimentazioni per utilizzare in futuro packaging più sostenibili per la pasta, si aggiunge l’utilizzo di energia pulita: “Tutta l’energia utilizzata è certificata da energie rinnovabili. Ad oggi il 20% circa è autoprodotta, ma contiamo nel prossimo futuro di fare nuovi investimenti”.
Se i mercati internazionali sono fondamentali per il bilancio della cooperativa, è stato altrettanto importante il ruolo che essa ha giocato a livello locale: ”Il calo degli abitanti di Isola del Piano, che adesso sono 600, si è fermato quando siamo nati noi. Percorrendo per otto chilometri la strada che da qui va a Urbino, si incontrano 20 aziende agricole, di cui 18 sono biologiche e nostre socie. E’ la via europea dell’agricoltura biologica”, ci raccontava Gino Girolomoni, in una delle sue ultime interviste. “Mentre in una prima fase pioneristica tutti ci guardavano con diffidenza perché non capivano cosa stessimo facendo quassù tra le colline, oggi notiamo una certa stima nei nostri confronti e molti agricoltori locali iniziano a capire il nostro potenziale, tanto che l’ultimo investimento fatto è proprio in centro di stoccaggio da 10.000 quintali di grano a Isola del Piano per la raccolta del grano locale. Vogliamo fare qualcosa di più però per incentivare l’acquisto della nostra pasta nella provincia di Pesaro-Urbino”, dice oggi il figlio Giovanni.
Dopo la scomparsa del fondatore, nell’intenzione anche di comunicare tramite la sua figura lo spirito di un lavoro pluridecennale, il marchio ha cambiato nome: “Era stato già deciso insieme a mio padre. Avevamo capito che la separazione dal marchio Alce Nero era sfuggita a molte persone e che quindi c’era bisogno di un cambiamento per far capire meglio questo passaggio. Dopo la scomparsa di mio padre, ci siamo sentiti di volergli dedicare non solo il marchio ma anche il nome della cooperativa”, racconta Giovanni.
Un elemento che ha sempre distinto Alce Nero è stato anche il grosso fermento culturale. L’idea di Girolomoni, in contatto con diversi intellettuali, da Guido Ceronetti a Carlo Bo, era che la sua creatura riuscisse anche a rappresentare una “cura omeopatica per le ferite della mente”: ancora oggi si organizzano incontri e convegni e la fondazione Girolomoni, nata nel 1996, oltre a promuovere l’agricoltura, si occupa della conservazione e della diffusione degli scritti del suo fondatore, nonché di altre attività quali lo studio della storia del Monastero di Montebello e degli eremiti che vissero in questo luogo, dei suoi studi archeologici sul Sinai della Bibbia, e pubblica la rivista Mediterraneo Dossier.
La sfida culturale, quella che aveva portato Gino Girolomoni a tornare alla terra dopo averla abbandonata e a coltivarla senza chimica, in tempi di Ogm, filiere poco controllate e truffe del biologico continua: “Un aforisma di mio padre di pochissimi anni fa era che “la nostra cooperativa è pronta per una nuova sfida: non privare il biologico della sua anima“. Un biologico che non tiene in considerazione temi come le energie rinnovabili, finanza etica, giusto prezzo ai produttori, filiera italiana è in qualche modo un biologico dai requisiti minimi. Dal punto di vista di contenuti ideologici naturalmente, perché altrimenti il punto di forza del nostro settore è che c’è un regolamento e un controllo che vale per tutti allo stesso modo e che garantisce gli stessi standard di sicurezza alimentare”.
Veronica Ulivieri