Dopo la COP 21 abbiamo ancora l’acqua alla gola?
Dopo la COP21 abbiamo ancora l’acqua alla gola? E’questa la domanda fondamentale dell’incontro che si terrà questa sera alle ore 18,30 presso la Cascina Cuccagna di Milano. Un dibattito intorno alla reale efficacia del vertice ONU di Parigi sul cambiamento climatico ad un mese dalla sua conclusione. Ne parleranno Andrea Poggio, direttore nazionale di Legambiente con Daniele Pernigotti, autore di “Con l’acqua alla gola” (Giunti, 192 pp., 10 euro). Questo saggio racconta infatti, con vigore polemico e solide argomentazioni, cosa occorre fare, subito, per consegnare un pianeta sano e vivibile alle generazioni future. “Con l’acqua alla gola” parla di global warming, di equilibrio ecologico stravolto, del rapporto tra uomo e ambiente che si sta compromettendo. Per “Racconti d’Ambiente” pubblichiamo un estratto del capitolo “C’è chi dice no“, dedicato al negazionismo climatico.
L’impatto delle attività umane sull’ambiente è così grande da causare l’estinzione di un crescente numero di specie viventi, a un tasso 1.000 volte superiore a quello naturale. Secondo il saggio “La sesta estinzione”, vincitore nel 2015 del Premio Pulitzer, ci troviamo nel mezzo della più grande estinzione di massa dalla scomparsa dei dinosauri. Continuando con l’attuale ritmo di emissione di GHG, gli scienziati prevedono che il 40 per cento delle specie esistenti rischierà di scomparire entro fine secolo. Con un parallelismo un po’ ardito ci sarebbe da chiedersi se tra le specie destinate a estinguersi debbano essere annoverati anche i negazionisti climatici. Sembra difficile, infatti, prevedere un futuro diverso per chi ancora oggi si ostina, a 25 anni dalla pubblicazione del primo Rapporto dell’IPCC, a mettere in discussione un fenomeno le cui dimensioni sono tali da essere diventate ormai evidenti a ogni comune cittadino.
Lo stesso Papa Francesco ha riconosciuto da tempo la responsabilità umana sul cambiamento climatico, lanciando un appello alla politica internazionale per un’azione più decisa verso la risoluzione del problema. Ne ha fatto addirittura un tema centrale della recente enciclica “Laudato si’. Sulla cura della casa comune”, manifesto talmente palese e accorato a sostegno dello sviluppo sostenibile da aver creato subbuglio nelle aree più reazionarie della chiesa cattolica americana già sei mesi prima della sua pubblicazione. Il repubblicano Rick Santorum è arrivato addirittura, per ironia della sorte, viste le sue posizioni negazioniste, a chiedere al Papa di lasciare che del cambiamento climatico si occupino gli scienziati.
La determinazione con cui i negazionisti insistono ancora a presentare tesi strampalate per negare l’evidenza dei fatti stimola quasi un sentimento di tenerezza, simile a quello che si può provare per i soldati giapponesi rimasti a combattere la loro battaglia personale in qualche isola sperduta del Pacifico, nella convinzione che la Seconda guerra mondiale non sia ancora finita. Ciò che continua però a sorprendere è lo spazio che tutt’oggi viene riservato loro nei dibattiti pubblici, sui media e addirittura nell’università, nonostante la comunità scientifica in realtà da tempo non stia più nemmeno prendendo seriamente in considerazione molte di queste tesi. Il fenomeno negazionista è stato talmente sorprendente da portare John Cook a fondare nel 2007 Skeptical Science, il più importante blog impegnato a smontare le tesi dei negazionisti, e a organizzare nel 2015 con l’Università del Queensland addirittura un corso online aperto a tutti, proprio sul fenomeno del negazionismo del clima. Perché sul cambiamento climatico esiste una bufala su tutte da sfatare. Chi sostiene che la comunità scientifica sia divisa in due tra chi riconosce l’esistenza e chi nega il cambiamento climatico dice il falso. Un simile dubbio poteva avere un senso prima del 1988, quando ancora non esisteva l’IPCC e per i non addetti ai lavori era difficile riuscire a orientarsi tra le numerose pubblicazioni scientifiche e comprendere quali fossero la consistenza e la rilevanza delle diverse posizioni in gioco. Da allora in poi la sintesi della conoscenza scientifica è diventata accessibile a tutti e non è concepibile come ci possa ancora essere qualcuno che pretenda di mettere in discussione, con strampalate ipotesi e teorie personali, quanto la comunità degli scienziati è arrivata a condividere sulla base dell’analisi e del confronto di diverse migliaia di studi pubblicati negli ultimi decenni. Processo che ha portato l’IPCC, nel 2007, a riconoscere come inequivocabile l’esistenza del cambiamento climatico.
Come è possibile allora, a fronte di un messaggio così netto dell’oracolo più rappresentativo della scienza del clima, sentire ancora per strada o dalla bocca di rappresentanti del mondo dell’informazione, della cultura, della politica e anche della scienza il dubbio sull’esistenza stessa del fenomeno? Da dove nasce lo scollamento a livello d’informazione tra la conoscenza scientifica e la consapevolezza dei non addetti ai lavori? Sia chiaro, lo scetticismo è una caratteristica legittima di ogni persona e deve far parte addirittura del DNA degli scienziati, perché il dubbio è il sale della conoscenza. Quando però lo scetticismo sconfina nella negazione delle evidenze, allora si finisce per cadere, come ricorda Naomi Oreskes, in un dibattito politico travestito da dibattito scientifico.
Oreskes è anche la co-autrice di “Merchants of doubt”, già citato nel precedente capitolo in merito al Climategate. Il libro analizza le tecniche utilizzate dai negazionisti nel mettere in discussione le evidenze scientifiche nel caso del tabacco e del cambiamento climatico. Due contesti evidentemente diversi, accomunati però dall’esistenza di una precisa conoscenza scientifica, ovvero il rapporto causa-effetto tra fumo-cancro ed emissioni GHG-cambiamento climatico, a cui si contrappongono dei forti interessi economici dell’industria del tabacco e delle fonti fossili. I metodi adottati per instillare il dubbio sul cambiamento climatico sono tre:
– attaccare personalmente gli scienziati;
– mettere in dubbio le evidenze scientifiche;
– mettere in dubbio il consenso scientifico.
“Si smonta il messaggio, smontando il messaggero” è appunto la convinzione di Bill Santer, che ha vissuto in prima persona le conseguenze di aver guidato il gruppo che ha inserito nel SAR dell’IPCC, nel 1995, la prima frase che evidenziava la responsabilità umana sul cambiamento climatico. La stessa Oreskes ha trovato proprio negli attacchi personali ricevuti lo stimolo per la scrittura del suo libro. Ritroviamo l’utilizzo dei primi due metodi anche nel Climategate. In questo caso gli attacchi personali a Phil Jones sono stati così forti da fargli pensare addirittura al suicidio. Non sono stati individuati i responsabili diretti di queste azioni, ma è evidente che il fronte del negazionismo trovi un fertile terreno di crescita nella lobby delle fonti fossili. Secondo Scott Mandia, la Exxon ha speso 16 milioni di dollari e le industrie Koch 24,9 milioni per finanziare gruppi al fine di spargere dubbi sul consenso scientifico esistente sul cambiamento climatico. Gruppi caratterizzati da nomi con accezione scientifica, come “International Climate Science Coalition” e “Friends of Science”, per presentarsi con un’immagine credibile.
Ma è sul terzo metodo citato da Oreskes – mettere in dubbio il consenso scientifico – che il fronte negazionista sembra essersi impegnato maggiormente, ottenendo l’importante risultato di creare uno scollamento tra informazione giornalistica e scientifica. Il 97 per cento delle pubblicazioni scientifiche, infatti, riconosce l’uomo quale principale responsabile del cambiamento climatico. La percezione dell’opinione pubblica è però, sorprendentemente, che la comunità degli scienziati sia ancora spaccata in due su questo punto. Divisione a metà simile a quella dello spazio dedicato dall’informazione giornalistica alle due tesi, come avremo modo di approfondire nel prossimo capitolo.
Il fenomeno negazionista tende a utilizzare dei cliché ormai consolidati per cercare di mettere in discussione i risultati degli studi della comunità scientifica, sia in termini di contenuto dei messaggi, sia delle modalità utilizzate per veicolarli. Il primo messaggio, quello diventato ormai davvero arduo da sostenere anche davanti alla platea meno esperta, è che il clima non stia cambiando. Una volta dimostrata l’infondatezza di questa posizione, il negazionista modifica il messaggio. Se il cambiamento esiste, ciò non può essere imputabile alle attività umane. Quando anche questa affermazione viene smontata, si passa alla terza fase del disfattismo, finendo per sostenere che la scala del problema è così grande da rendere troppo complesso e oneroso, se non impossibile, trovare una soluzione. Quindi è meglio non affannarsi tanto con negoziati internazionali o processi similari. Anche di quest’ultima posizione è evidentemente possibile rilevare l’infondatezza, ma intanto il risultato del negazionista è stato comunque raggiunto. Giocando d’anticipo e costringendo scienziati ed esperti alla successiva risposta circostanziata, si è creata la perfetta situazione di confusione utile a instillare il dubbio nell’opinione pubblica. E si può partire per un altro giro di giostra, riutilizzando lo stesso cliché in un diverso contesto.
Uno studio scientifico ha evidenziato che, a prescindere dal tema in discussione, l’approccio negazionista utilizza cinque diverse caratteristiche che John Cook ha riassunto con la sigla FLICC, dalle iniziali dei termini inglesi e che noi potremmo rinominare FACTE: – falsi esperti; – aspettative impossibili; – cernita delle ciliegie; – teorie cospirative; – errori logici. Utilizzare esperti di altri settori per poter spendere la loro credibilità nel mettere in discussione il cambiamento climatico. Creare delle aspettative impossibili, come la richiesta di precisione assoluta e puntuale di un modello matematico, per rigettare anche la parte del risultato che fornisce un segnale forte. O, come quando si scelgono le ciliegie, prendere l’esempio di una giornata di freddo in una singola città per mettere in discussione l’intero cambiamento climatico.Pretendere che il settore delle rinnovabili abbia una capacità di lobby superiore a quella delle fonti fossili è un esempio di teoria cospirativa. L’elenco degli errori logici è un po’ più articolato e comprende la distrazione dall’elemento fondamentale, il saltare alle conclusioni, le false alternative e le rappresentazioni erronee. Tutte caratteristiche dei messaggi negazionisti che vale la pena ricordare, per poterli più facilmente identificare.
Daniele Pernigotti*
* Daniele Pernigotti rappresenta l’Italia in diversi tavoli tecnici internazionali legati al cambiamento climatico ed è coordinatore del gruppo di lavoro ISO dedicato allo sviluppo della norma sulla Carbon footprint di prodotto. È consulente ambientale e come giornalista freelance si occupa in modo esclusivo di climate change; segue in particolare il negoziato internazionale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Sull’argomento ha pubblicato: Come affrontare i cambiamenti climatici (Sole24Ore Editore 2007), Carbon Footprint (Edizioni Ambiente 2011) e il libro per ragazzi Il clima (Giunti 2011).