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“C’era una volta il Re Fiamma”: la Terra dei Fuochi attraverso gli occhi dei bambini

gennaio 20, 2015 Racconti d'Ambiente, Rubriche

Ce l’hanno raccontata inchieste, reportage, fiction, talk show, ma ci sono parole che descrivono la Terra dei Fuochi meglio di qualsiasi rapporto, dossier o articolo. Sono quelle ingenue, dolorosamente schiette, dei bambini. Nel libro “C’era una volta il Re Fiamma“, da poco pubblicato dalla casa editrice Round Robin, la giornalista Angela Marino ha raccolto negli ultimi anni temi e disegni nelle scuole del cosiddetto “Triangolo della morte” della Campania, stando a diretto contatto con insegnanti, genitori e alunni. Dai loro lavori si può capire quanto l’inquinamento, la malattia, la morte siano diventati nella loro immaginazione dei moderni mostri, simili a quelli che nelle favole tradizionali personificano il male. Così i “bambini dei fuochi” si inventano “fatine dei giardini” che per magia riportano l’equilibrio in natura; disegnano verdure animate che si ribellano all’uomo. Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi la seconda parte dell’introduzione, in cui l’autrice racconta il percorso di avvicinamento ai problemi della Terra dei Fuochi, la sua terra, che l’ha poi portata a scrivere questo libro.

È stato la mattina del primo agosto del 2013, quando non riuscivo, nemmeno a fatica, ad alzarmi dal letto, che la mia capacità di diniego ha cominciato a vacillare. La bufera mediatica era in corso ormai da mesi: era la stagione calda delle analisi choc che avevano rinvenuto arsenico nei finocchi messi a coltura nei fondi della periferia di Caivano. Quel giorno ebbe inizio per me un lungo periodo di astenia, febbre, dolori muscolari che durò fino a quando gli esami di laboratorio non rivelarono che si trattava di tiroidite, una malattia endocrina peculiare del nostro territorio, insieme ai tumori, all’alzheimer, all’infertilità e a diverse forme di allergie e ipersensibilità alle sostanze chimiche. È stato allora che quegli stessi medici che fino a poco prima mi avevano giurato che ero sana, “perfetta”, dopo avere ammesso che ero messa male, mi fecero una domanda che mi mise a disagio: “Lei vive in un ambiente molto inquinato?”. “No”, era la risposta pronta, istintiva. “Però… sono di Caivano”, aggiungevo dopo aver riflettuto qualche istante. “Viene in contatto con sostanze tossiche per lavoro?”. No”, assicuravo, tralasciando di citare quell’unica volta in cui, durante un sopralluogo in un capannone abbandonato, me ne ero andata in giro tra fusti, copertoni ed esalazioni di chissà cosa di tossico che si alzavano da minuscoli vulcanelli sotterranei, affondando le scarpe in quel terreno polveroso, liquido come sabbie mobili, che nelle sue viscere covava veleni di ogni genere. Gli stessi rifiuti tossici che – arrivati nottetempo da chi sa dove per essere occultati, anziché seguire l’iter corretto dello smaltimento – nell’ex bitumificio di Napoli Est, venivano mescolati al catrame per finire spalmati su decine di chilometri di strada sui quali gente ignara cammina ancora ogni giorno. Quello era stato l’unico caso in cui avevo potuto vedere da vicino gli effetti del traffico di rifiuti. Di fronte a quello scempio che stava uccidendo giorno per giorno le famiglie della periferia industriale, l’idea di mettermi la mascherina sanitaria che mi ero portata dietro mi parve quasi ridicola e cominciai ad arrampicarmi tra materiali di risulta e i frigoriferi abbandonati, noncurante delle conseguenze o forse, semplicemente incosciente.

Quella domanda che mi ero sentita ripetere da tecnici di laboratorio e specialisti aveva squarciato il velo del rifiuto e mi aveva aperto le porte di quel mondo senza futuro in cui molti vivevano da tempo.

“Anche tu la tiroide, vero? Te ne devi andare da lì!”. Osservavano gli amici più informati e qualche collega.

Da persona sana, eppure sfiorata di striscio da questo vento di malattia, non potevo fare a meno di chiedermi, ad ogni sintomo nuovo, ad ogni dolore o stranezza: “Quanto durerà? Quanto tempo passerà prima che i miasmi che ho respirato e i veleni che ho ingerito compromettano irrimediabilmente la mia salute?”. Mi rendevo conto con sempre maggiore lucidità che la domanda costante era: “Quando?”. Quando mi ammalerò anche io? Quanto tempo ho prima che il periodo di latenza della malattia finisca e si sviluppi dentro di me un cancro? E la tensione diventava attesa. Perché vivere nella paura può essere altrettanto devastante che vivere nella malattia. “Quando sarà successo, non dovrò più temerlo”, era il pensiero che mi accompagnava.

Non c’era più spazio per la negazione, a quel punto, anche se continuava a farla da padrona nella coscienza di chi mi stava vicino: familiari, conoscenti, amici. Nessuno in tanti mesi aveva voluto riconoscere il dramma. Tutti credevano che, se fino ad allora non si erano ammalati, fossero salvi, come se i veleni nell’aria e nell’acqua non lavorassero silenziosamente ogni giorno. Come se fosse un contagio al quale, se si scampa una volta, magari ci si ritrova con gli anticorpi. Come se si trattasse di vaiolo o varicella.

La disinformazione si fondeva ad una specie di superstizione irrazionale e nessun voleva sentir parlare di Terra dei Fuochi. Io, invece, cominciai a volerne sapere sempre di più, a frequentare la comunità di attivisti, ad ascoltare le storie delle persone, trovando dentro questo mondo di indifferenza e ottusità, un altro mondo, onesto e genuino, popolato di persone perbene, consapevoli, informate, propositive. Gente che non si arrende e che si rimbocca le maniche per fare quello che nessuna autorità vorrà fare per loro. Aprii un blog. Pezzo dopo pezzo, storia dopo storia ero sempre più coinvolta. Ho imparato a conoscere le vittime del tumore e le loro famiglie stampandomi nella memoria i nomi e le facce, memorizzando ogni piega del sorriso dei bambini che hanno lasciato i loro genitori. Ogni sguardo. Ho osservato le loro foto. Ho letto i loro appelli, i loro sfoghi, ho seguito le iniziative di denuncia e di protesta. Più il tempo passava e più il senso di comunità con chi ha avuto la mia stessa sorte di nascere in questi luoghi diventava più forte. D’un tratto, mi sembrava di vedere tutto con occhi diversi. Era stato tracciato un solco nella mia vita che divideva un prima da un dopo. Prima, c’era tempo per rimandare le cose, per rimanere di cattivo umore. Dopo, nessun saluto, nessun abbraccio sarebbe stato superfluo, nessun gesto scontato.

Sapevo di dividere questa sensazione con tutte le persone che avevo conosciuto in questo percorso. L’empatia diventava fortissima, le loro storie erano le mie, la sorte delle loro famiglie era anche la mia. Il dolore ci univa tutti in un unico corpo collettivo, un Noi dalla potenza emotiva inaudita. È stato quel Noi a portarci tutti in strada nella grande marcia del 5 ottobre che attraversò Caivano, Cardito, Frattaminore, Orta di Atella. E poi nella grande manifestazione Fiume in piena del 16 novembre, il più importante corteo di protesta contro il disastro ambientale che avesse avuto luogo a Napoli.

C’eravamo tutti. Gli attivisti dei comitati, i giornalisti, le famiglie delle vittime, le associazioni. Eravamo in tantissimi a marciare, pacifici, ordinati, sereni, lungo il percorso che da Piazza Garibaldi porta a Piazza del Plebiscito, quel sabato piovoso. C’era chi urlava attraverso un megafono la rabbia di essere stati abbandonati e lasciati a morire da tutti quelli che sapevano. Nonostante la durezza di certe invettive, la rabbia, il dolore, si respirava un’aria di totale comunione. Mi voltavo a guardare e dietro le mie spalle vedevo un’onda di chilometri e chilometri di persone che sentivano quello che sentivo io, condividevano le mie angosce più profonde, la fatica quotidiana di vivere a queste condizioni. Quel giorno avevo una famiglia di centotrentamila persone.

Lì mi sono imbattuta nell’immagine che di quel giorno conserverò sempre. Ai margini del corteo, sotto la pioggia, c’era un bambino con il suo papà; poteva avere poco più di sei anni, indossava una mantellina gialla che lo proteggeva dalla pioggia. Stringeva tra le mani un cartello con la scritta “Muoio”. L’entusiasmo infantile con cui agitava il cartello, il giallo allegro della mantellina, il visino felice, contrastavano in maniera agghiacciante con la tragicità del messaggio sul cartello. Eppure la realtà è questa. Ai bambini che nascono nella nostra terra, noi consegniamo un peso enorme. A chi non sa ancora comprendere cosa sia la vita, dobbiamo spiegare che qui da noi qualcuno l’ha bruciata, la vita.

Da quel momento il bambino con la mantellina gialla è diventato nella mia mente l’immagine della Terra dei Fuochi. Nessuna montagna di ecoballe, nessun rogo, nessun campo di raccolto abbandonato, nessuna delle fotografie che da mesi raccontano questi posti è efficace, immediata, intrisa di un’umanità straziante come questa.

Ci sono voluti trent’anni per capire che siamo protagonisti di una sorta di esperimento biologico in cui la vita umana viene seviziata in ogni modo per vedere quanto resiste, per vedere fino a che punto la si può calpestare asservendola a loschi giochi in cui a trarre vantaggio sono davvero tanti (ma quanti?). Siamo solo al primo stadio di questa terribile scoperta: il presente. E il futuro? Che ne sarà di noi? Che ne sarà dei bambini? Loro lo sanno? Hanno paura?

Elaboravo queste domande e mi rendevo conto che avrebbero potuto rispondermi solo loro. No, non alle domande sulla loro salute, sulla paura, sulla comprensione di tutta la vicenda. Alla domanda: Che ne sarà di noi?

Nessuno sa emendare la verità dall’ipocrisia e dall’errore come i bambini. A loro dovevo chiedere. Dovevo lasciarmi alle spalle il passato, la tragedia, i fantasmi della nostra gente che ci accompagnano, muti, ogni giorno della nostra vita e chiedere a loro, se una speranza c’è ancora. Ho cominciato il mio viaggio nelle scuole elementari, ho spulciato i loro temi, ho chiesto ai loro insegnanti quanto male di viere, quanta gioia, quante domande hanno i figli della Terra dei Fuochi.

Angela Marino*

Angela Marino, nata a Caivano (Napoli), epicentro della Terra dei Fuochi. Scrive per il quotidiano online Fanpage.it; in passato ha collaborato con il Corriere del Mezzogiorno. Dal 2013 tiene un “Diario dalla Terra dei Fuochi”.


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