Cambio di rotta sugli OGM: l’UE ha decretato che “ognuno farà per sé”
Settimana nera per il fronte anti-OGM europeo. Ma andiamo per gradi. Senza dubbio la prima doccia fredda è arrivata giovedì, non appena il Consiglio Ambiente UE ha raggiunto un accordo politico – con la sola astensione di Belgio e Lussemburgo – su un progetto di modifica della direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare – per motivi diversi da quelli della salute e ambientali – la coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) autorizzati su tutto o su parte del proprio territorio. L’obiettivo della proposta rappresenta una risposta alla richiesta inviata alla Commissione da 13 Stati membri nel giugno 2009. L’anno successivo l’esecutivo UE ha presentato un documento con l’obiettivo di fornire una base giuridica per consentire la cosiddetta “ri-nazionalizzazione” degli OGM. Le nuove regole sono state esaminate nel corso di diverse presidenze. Il Parlamento Europeo ha adottato, in prima lettura, una serie di emendamenti alla proposta della Commissione nel luglio 2011. Il Consiglio Ambiente del 9 marzo 2012 non è poi stato in grado di raggiungere un accordo politico a causa del blocco messo in atto da alcuni Stati. La decisione ora raggiunta dovrà essere seguita dall’adozione formale da parte del Consiglio in prima lettura. La Presidenza italiana avvierà quindi i negoziati con il neo-eletto Parlamento all’inizio dell’autunno 2014. Il quale si era già espresso nel 2011 e aveva concordato un quadro giuridico molto più robusto per i blocchi nazionali agli OGM. Il divieto era previsto per esempio anche nel caso in cui non fossero stati presenti dati sufficienti sui possibili effetti negativi sull’ambiente causati dalla presenza di organismi geneticamente modificati.
Il testo sul quale si è raggiunto l’accordo comprende in particolare i seguenti elementi: 1) il collegamento tra l’autorizzazione a livello UE e la domanda nazionale in ogni Stato membro in cui la coltivazione è prevista; 2) sarà introdotto un elenco non esaustivo dei possibili motivi che possono essere indicati dagli Stati membri per limitare o vietare le autorizzazioni, tra cui, in particolare, ragioni ambientali, motivi socio-economici, uso del territorio e urbanistica, obiettivi di politica agricola e questioni di politica pubblica; 3) sarà sempre la Commissione UE a fare da intermediario tra la richiesta di un’azienda di essere autorizzata a vendere sementi OGM nell’UE, e lo Stato membro a cui spetta sempre l’ultima parola; 4) entro quattro anni dall’entrata in vigore della direttiva, la Commissione presenterà una relazione al Parlamento europeo e al Consiglio sulla sua applicazione ed efficacia, comprese le valutazioni del rischio ambientale.
È importante sottolineare che la nuova Direttiva non ha alcun impatto sul processo di valutazione degli OGM effettuato dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare ai sensi della direttiva 2001/18 e del regolamento 1829/2003. Tuttavia, dopo anni di dibattiti e battaglie la soluzione trovata – che rappresenta un compromesso tra il fronte dei pro e quello dei contro – non mette il nuovo meccanismo al riparo dalle critiche. Andando oltre le parole tecniche del Consiglio, quello che potrebbe nella realtà accadere è che Stati come Regno Unito e Spagna, da sempre favorevoli alla coltivazione, potranno proseguire sulla loro strada, mentre i Pesi contrari, tra cui Italia in prima linea, ma anche Francia e Austria, avranno la possibilità di bandirli dai propri confini. Lo svantaggio, però, ricadrebbe su quest’ultimi. Secondo Greenpeace e Slow Food, infatti, chi sceglierà di dire no agli OGM sarà più esposto alle ritorsioni legali del settore biotech, ma non solo. “Un simile accordo rischia di lasciare entrare gli OGM dalla “porta di servizio” di singoli Stati, mettendo in pericolo anche i campi dei paesi limitrofi che hanno avuto la forza di dire no”, ha dichiarato Monica Frassoni, co-presidente del Partito Verde Europeo e coordinatrice di Green Italia, che ha aggiunto: “Serve una base legale più solida, capace di garantire che le valutazioni di impatto su ambiente e salute non siano basate unicamente sui dati forniti dalle stesse aziende biotech che richiedono la vendita o coltivazione degli OGM. La presidenza italiana dovrà essere l’occasione per difendere un’agricoltura sostenibile e la salvaguardia dell’ambiente, non solo in Italia, ma in tutta Europa”. Dove comunque sono rimasti solo cinque, sui ventotto, i paesi a coltivarli (Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania).
Sempre in tema di OGM, il Consiglio UE affari esteri – in una sessione dedicata al commercio – ha approvato in via definitiva la nuova Direttiva europea che prevede l’indicazione sull’etichetta del Paese o dei Paesi d’origine in cui il miele è stato raccolto. Il consumatore potrà leggere sull’imballaggio, a seconda dei casi, le seguenti definizioni: “miscela di mieli originari dell’UE”; “miscela di mieli non originari dell’UE”; “miscela di mieli originari e non originari dell’UE”. Per quanto riguarda poi, l’eventuale presenza di polline OGM, l’informazione dovrà essere riportata sull’etichetta del prodotto solo se la presenza è superiore allo 0,9%, in linea con le regole che riguardano gli altri alimenti. Si è avverato, quindi, ciò che già avevamo anticipato: se inferiore a quella percentuale la presenza di OGM non è quindi obbligatoria.
L’impatto della Direttiva è duplice. Da un lato i consumatori potranno scegliere il miele che intendono acquistare essendo informati sull’origine del prodotto. I produttori europei, invece, saranno maggiormente protetti dalle importazioni di miele a basso prezzo da Paesi terzi che fanno una concorrenza sleale al prodotto europeo. Anche alla luce del fatto che l’Unione Europea importa ogni anno circa 140.000 tonnellate di miele dagli Stati extra-UE. Tra i primi fornitori c’è la Cina, che rappresenta il 40% del consumo totale. La nuova norma si applicherà dal 24 giugno 2015 per permettere ai commercianti di esaurire le scorte del prodotto che riporta le vecchie etichette.
Tornando al Consiglio Ambiente, l’incontro è stato caratterizzato dalle pressioni di Germania, Francia e Gran Bretagna per riuscire a definire entro ottobre il pacchetto clima-energia per il 2030, che preveda un target di riduzione del 40% della CO2, ma anche rinnovabili ed efficienza energetica. “Una decisione va presa ad ottobre, che includa anche le rinnovabili e l’efficienza energetica” ha sottolineato il ministro dell’ambiente tedesco, Barbara Hendricks, affermando che “l’Unione europea è pronta ad aumentare le proprie ambizioni”. Una linea ripresa dal ministro dello sviluppo sostenibile e dell’energia francese, Ségolène Royal, che guarda alla conferenza Onu sul clima di Parigi 2015. “Quello che dobbiamo costruire nell’Unione Europea è un nuovo modello energetico, con obiettivi chiari per investitori, enti locali, cittadini, per nuovi modelli di consumo”. “Nel contesto di un accordo nel 2015 a Parigi dovremmo essere disposti ad arrivare al 50%” ha proposto Edward Davey, segretario di Stato britannico per energia e clima.
Spostandoci sul piano energetico, infatti, il Consiglio UE del 13 giugno ha raggiunto un accordo sui biocarburanti che prevede un limite al 7% del loro utilizzo per i trasporti nel 2020. Un successo, visto che le proposte che venivano dagli altri organi UE erano senza dubbio meno ambiziose. Il Parlamento aveva fissato il tetto di utilizzo dei biocarburanti di prima generazione provenienti da colture alimentari al 6%, contro il 5% che aveva inizialmente proposto la Commissione UE. Il compromesso raggiunto dagli stati membri, contro cui hanno però votato Portogallo e Belgio, prevede anche un incoraggiamento alla transizione verso i biocarburanti di seconda e terza generazione. L’obiettivo è raggiungere il 10% di rinnovabili entro il 2020 per i trasporti. Anche in questo caso dovrà essere trovato un accordo tra Parlamento e Consiglio per arrivare a una posizione comune sulla legislazione e naturalmente il semestre di presidenza europea è di nuovo centrale.
Beatrice Credi