Buste di plastica: per una volta l’Europa prende esempio dall’Italia
Chi considera la battaglia europea contro le buste di plastica un’ulteriore mania dei burocrati di Bruxelles che niente cambierà nella politica green dell’UE, guardando i dati dovrà ricredersi.
Nel 2010 circa 100 miliardi di borse sono state usate in Europa: quasi 250 per abitante. Una quantità di plastica – principalmente polietilene – enorme, che dopo pochi minuti di utilizzo finisce nell’ambiente. Scarso, infatti, è il margine di riutilizzo, alla luce del fatto che la maggior parte di queste borse sono di materiale leggero e di fatto vengono riusate meno rispetto a prodotti di maggior robustezza. Altro dato che fa riflettere è la forbice esistente tra i vari Paesi dell’UE: si va dai 4 sacchetti annui pro-capite di Danimarca e Finlandia ai 466 di Polonia, Portogallo e Slovacchia.
A cercare di arginare questo spreco che nuoce gravemente all’ambiente, arriva la nuova Direttiva sugli imballaggi e i rifiuti d’imballaggio, votata dagli Europarlamentari della Commissione Ambiente nella Plenaria di marzo e che attende il voto dell’Aula nel mese di aprile.
Le nuove regole armonizzeranno le condotte degli Stati membri perseguendo un obiettivo di massima di riduzione generale del consumo su livelli globali del 50% entro i primi tre anni dall’entrata in vigore della nuova Direttiva e dell’80% entro cinque anni.
Tecnicamente, è stata modificata la Direttiva 94/62/CE secondo due linee guida. La prima, obbliga gli Stati ad adottare misure che riducano il consumo di borse di plastica con spessore inferiore ai 50 micron, meno riutilizzate rispetto a modelli di spessore superiore e quindi a maggior rischio di dispersione ambientale. I sacchetti di plastica usati per avvolgere alimenti come frutta, verdura e dolciumi dovranno invece essere sostituiti dal 2019 da sacchetti in carta riciclata o sacchetti biodegradabili e compostabili. La seconda, concede ai Paesi membri la libertà di decidere sul tipo di scelte concrete da adottare per perseguire il target, siano esse messe in campo sotto forma di imposte e prelievi o come obiettivi nazionali di riduzione e restrizioni al commercio di tali prodotti.
Ma quali sono i reali danni causati da un oggetto a noi ormai così tanto familiare da passare quasi inosservato? Il boom delle borse di plastica ha fatto sì che tali prodotti sfuggissero ai flussi di gestione tradizionale dei rifiuti e si accumulassero nell’ambiente, vivendo per secoli, con gravi danni per gli ecosistemi – soprattutto marini – la fauna ittica ed avicola.
Gli ambientalisti gridano al successo e ricordano come l’Italia, almeno in questo caso, sia stata all’avanguardia in Europa, poiché nel nostro Paese il divieto degli shopper è in vigore dal gennaio 2011, passando dalle circa 180.000 tonnellate del 2010 alle circa 90.000 del 2013, con un miglioramento della qualità e della quantità del rifiuto organico. Quello italiano si conferma, quindi, come modello vincente (pur con qualche contraddizione). Resta comunque fondamentale vigilare – in Italia così come negli altri Stati UE – sulla possibile commercializzazione di sacchi non conformi alle regole europee di biodegradabilità e compostabilità, ponendo al fianco di eventuali sanzioni lo sviluppo di filiere produttive industriali innovative e rispettose dell’ambiente.
Inoltre, mentre gli Europarlamentari erano riuniti a Strasburgo, Bruxelles ospitava il consueto Consiglio UE, anch’esso impegnato sul fronte dei rifiuti. È stato, infatti, raggiunto il primo accordo sul nuovo Regolamento concernente la spedizione dell’immondizia all’interno dell’Unione e tra l’Europa e i Paesi Terzi, al fine di combattere il trasporto illegale di rifiuti; si stima, infatti, che quasi il 25% delle spedizioni inviate dall’UE ai Paesi in via di sviluppo in Africa e Asia avvenga in violazione delle normative internazionali e che la maggioranza degli scarti sia poi abbandonata o gestita in maniera scorretta, costituendo una grave minaccia per l’ambiente.
Si tratta, anche in questo caso, della modifica di regole risalenti al 2006 che consentono l’esportazione di rifiuti non pericolosi verso Paesi non appartenenti all’OCSE, purché le autorità nazionali verifichino che tali rifiuti siano trattati in conformità a norme equivalenti a quelle dell’UE, ma nulla dispone sulla pianificazione delle ispezioni o sulle modalità di esecuzione delle stesse. Per questo le nuove norme puntano a combattere il fenomeno del port-hopping, ovvero il passaggio delle navi dai Paesi dove i controlli sono meno stringenti. L’idea è quella di provvedere ad assicurare un’applicazione uniforme del Regolamento su tutto il territorio UE visto che alcuni Stati dispongono di sistemi d’ispezione a tutto campo ed efficienti, soprattutto nei porti, mentre altri Stati no. Entro il primo gennaio 2017, gli Stati membri sanno, infatti, tenuti a varare piani ispettivi, specificando requisiti minimi, obiettivi e priorità dei controlli, l’area geografica coperta dai piani ed i compiti affidati a ciascuna autorità coinvolta. Le autorità dovranno verificare i percorsi, gli orari e i veicoli più frequentemente coinvolti nel trasporto illegale e dovranno concentrarsi sui punti di raccolta e sugli impianti di stoccaggio così da bloccare all’origine le esportazioni illegali di rifiuti e attenuare la pressione presente nei punti regolari di uscita. I rapporti ispettivi dovranno basarsi su una valutazione del rischio ed essere rivisti ed aggiornati almeno ogni tre anni. Inoltre, gli Stati membri dovranno rendere pubblici, anche on-line, le informazioni ottenute dai controlli.
Beatrice Credi