Arbitrati internazionali: quando è lo Stato a non rispettare le regole
La Vallonia alla fine ha ceduto e il CETA è stato firmato. La regione francofona del Belgio, dopo il blocco iniziale, ha accettato il compromesso proposto dal premier Charles Michel, che ha consentito al trattato commerciale tra Unione Europea e Canada di andare in porto. Ma cosa ha ottenuto, alla fine, il presidente vallone Magnette – divenuto per qualche giorno l’eroe delle associazioni ambientaliste – rispetto alle contestazioni avanzate? Sui punti controversi l’accordo è davvero cambiato? La risposta è che, in realtà, non è cambiato praticamente nulla.
Il risultato forse più significativo della Vallonia è che il Belgio ricorrerà alla Corte di Giustizia Europea per verificare la compatibilità con il diritto comunitario della tanto controversa clausola ISDS “Investor-state dispute settlement”. Ovvero del meccanismo che consente alle multinazionali di “fare causa” a uno Stato attraverso un arbitrato internazionale, nel caso in cui l’investitore ritenga di essere stato ingiustamente danneggiato. Un arbitraggio cioè sugli investimenti che possono essere lesi da norme pubbliche. Per risolvere queste controversie, il CETA stabilisce la creazione di un tribunale permanente, con giudici scelti da Canada e Unione Europea, tra i quali saranno sorteggiati quelli che si occuperanno dei singoli casi.
Il tema dell’arbitraggio sui conflitti fra investitori privati e Stati, da parte di panel separati dalla giurisdizione ordinaria, non è tuttavia una novità introdotta da CETA (e TTIP), ma è sempre stata la clausola comune in moltissimi dei trattati commerciali discussi o in discussione in questi anni. La ratio alla base degli ISDS è, infatti, che i tribunali statali non sempre sono il luogo migliore dove tutelare gli interessi di un’impresa straniera che si trova all’estero e che in questo modo ha, al contrario, la possibilità di proteggersi da eventuali decisioni scorrette da parte delle autorità pubbliche.
Gli oppositori di questo sistema di arbitrati lo considerano un potentissimo strumento nelle mani delle grandi corporation che, in caso di contenzioso, hanno capacità e soprattutto risorse per affrontare una lunga trafila legale che potrebbe durare anni. Mentre sarebbe solo un’arma spuntata per le aziende più piccole, che raramente, per altro, si insediano in altri Paesi.
Ma abbiamo trovato diversi casi in cui la questione viene ribaltata e si potrebbe guardare da un altro punto di vista. Se non fosse, infatti, l’industria a non rispettare le regole, ma lo Stato? Proprio sulle normative in materia ambientale, di salute e di energia, oltretutto.
Prendiamo il caso dell’Italia. Sul sito dell’UNCTAD, si scopre infatti che il nostro Paese – che non ha mai brillato per coerenza legislativa – è attualmente coinvolto in sei procedimenti in cui imprese estere hanno invocato un arbitrato internazionale. E sapete su quali materie? Tutti riguardano la modifica impropria e retroattiva degli incentivi alle fonte rinnovabili! Tutte le cause ad oggi aperte contro il nostro paese sono state cioè intentate da imprese che hanno ritenuto seriamente danneggiati i propri investimenti da una serie di decreti governativi (ad es. il famigerato “Quinto Conto Energia“) per tagliare gli incentivi ad alcune tipologie di progetti di energia da fonte solare. Paradossalmente, quindi, potrebbero proprio essere i tanto contestati arbitrati internazionali a “fare giustizia” nei confronti di imprese che hanno investito sulle fonti rinnovabili in Italia e che hanno visto cambiare le leggi in maniera improvvisa, imprevedibile (e retroattiva).
Allo stesso tempo, diverse imprese italiane sono impegnate in 30 cause dello stesso tipo contro altri Stati. Molto simile, ad esempio, il caso della Spagna, paese citato in giudizio principalmente a causa di una serie di riforme energetiche intraprese dal governo, che interessano il settore delle rinnovabili, tra cui una riduzione dei sussidi per i produttori. In questo caso sono 33 i giudizi pendenti e a procedere per vie legali sono stati operatori sia del solare che dell’eolico.
Sempre per quanto riguarda le aziende italiane coinvolte in arbitrati nell’ambito della green economy, spiccano l’esempio di una mancata centrale idroelettrica in Albania e di due progetti per la gestione differenziata dei rifiuti, uno ancora nel Paese balcanico e l’altro in Egitto. Entrambi paesi dove, abbiamo imparato, la certezza del diritto non è propriamente un totem nazionale…
Quelli citati sono tutti casi in cui, ovviamente, la molla che muove le imprese non è di origine ambientalista, ma è legata a perdite di profitto. Questo però non significa che le ricadute non siano di interesse collettivo e pone una seria riflessione sul ruolo e la struttura degli arbitrati che né gli Stati nazionali né il mondo ambientalista possono ignorare.
Beatrice Credi