Anche gli alberi morti fan bene all’ecosistema. La cura del bosco secondo il generale Daniele Zovi
A 100 anni esatti dalla fine della Grande Guerra, che lasciò devastate ampie zone del Nord Est d’Italia, come l’Altopiano di Asiago, sono stati gli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici a radere al suolo interi boschi. Boschi che costituivano un inestimabile patrimonio naturale, economico e culturale del territorio. Che fare ora di queste migliaia di alberi a terra? Sicuramente recuperarne la maggior parte e approfittare dell’occasione per riattivare filiere produttive perdute. Ma, contrariamente a quanto si pensa, una piccola parte potrebbe anche restare a terra creando benefici all’ecosistema del bosco e alla sua biodiversità. Ci spiega il perché Daniele Zovi, generale di brigata del Comando Carabinieri-Forestali del Veneto e grande camminatore nelle foreste più antiche del Pianeta, nel suo libro “Alberi sapienti, antiche foreste. Come guardare, ascoltare e avere cura del bosco” (UTET, 2018, pagg. 304, € 20,00). In occasione della “Giornata Nazionale degli Alberi” del 21 novembre pubblichiamo qui di seguito un estratto del capitolo 11°, dal suggestivo titolo “Legno morto”…
Tanti aspetti della natura provocano emozioni, inducono a riflessioni esistenziali, e già solo questo mi porta a pensare che conservarne le forme più varie, anche quelle in apparenza inutili, sia cosa saggia. Conservare il legno morto sta invero diventando una necessità. Da secoli l’uomo continua a prelevare dalla foresta tronchi per il legname, rami per legna da riscaldamento, corteccia e muschi per impieghi nella floricoltura, funghi per l’alimentazione, senza mai restituire all’ecosistema alcuna fonte di compensazione. Di fatto provoca un impoverimento continuo del bosco. Anzi, spesso si sentono lamentele sul bosco “sporco”, poco gradito a chi va a passeggiare, quando dopo le utilizzazioni rimangono a terra rami, cimali e cortecce. Per sostenere l’utilità della “pulizia” si paventano anche inesistenti possibilità di diffusioni di malattie o attacchi parassitari; allora il legno morto viene percepito come inutile o, peggio, pericoloso: un ricettacolo di minacce alla salute del bosco.
Non è così. Più di duecento specie di insetti saproxilici (che si nutrono, cioè, di legno morto; dal greco sapros, “marcio”, e xylon, “legno”) allo stadio di larva vivono solo di legno morto e allo stadio adulto di nettare e polline, e rappresentano una parte importante della vita della foresta, il 20 per cento degli invertebrati. Franco Mason, che da tempo studia le dinamiche delle foreste europee, spiega:
“È lecito pensare che come in qualsiasi sistema fisico chiuso, il continuo prelievo di massa legnosa finisca con il far collassare il sistema. Lo hanno dimostrato le ricorrenti catastrofi avvenute nelle foreste nordeuropee, più simili al pioppeto e quindi alla coltura agraria che a ecosistemi degni di tale definizione. I tempi sono maturi per parificare nell’assestamento forestale il rango del compartimento del legno morto a quello delle biomasse legnose “produttive”. Il cammino è tuttavia ancora lungo. Ancora oggi infatti molti colleghi forestali sono intimamente convinti che di legno morto se ne rilascia già abbastanza. Se con questo ci si riferisce agli scarti delle lavorazioni forestali, ramaglia e spezzoni di legno, si è molto lontani dal vero; una simile tipologia non ha infatti che scarso valore biologico. Le dimensioni necessarie alla conservazione degli habitat delle faune saproxiliche sono rappresentate in realtà da tronchi interi di buone dimensioni e comunque sempre al di sopra del diametro minimo di 10 centimetri: si tratta della stessa frazione utilizzata dall’uomo. Le faune saproxiliche più specializzate e maggiormente a rischio di estinzione vivono solo nei tronchi di grandi dimensioni. Oggi è dunque necessaria una seria discussione scientifica sul tema della conservazione del legno morto. La posta in gioco è rilevante: per i gestori forestali il mantenimento di una selvicoltura sostenibile, per chi si occupa di conservazione il mantenimento della biodiversità“.
C’è, in questo mondo dei “mangiatori di legno”, un’altissima specializzazione. Il menù comprende alberi morti in piedi, alberi spezzati, alberi morti al suolo e alberi morti in acqua. Tra i frequentatori di questa mensa c’è chi preferisce il legno morto da poco, chi quello già parzialmente decomposto, chi i funghi e il detrito di origine animale e vegetale, e chi si limita a costruire cavità nel legno. I primi ad arrivare al banchetto sono quelli che si infilano sotto la corteccia, i coleotteri scolitidi; se ne può distinguere la specie in base al disegno formato dalle gallerie scavate tra la corteccia e il legno. Poi è la volta di termiti, formiche, vespe, api, mosche e infine dei veri scavatori del legno profondo, i coleotteri cerambicidi e buprestidi. Quando i detriti di legno si accumulano, arrivano anche i millepiedi, gli isopodi e le limacce, gli abitanti della lettiera del suolo.
La mensa funziona meno, o addirittura rimane vuota, se un tronco a terra è ben esposto al sole e privo di corteccia. Allora il suo legno diventa secco e duro, e ben difficilmente sarà attaccato dagli insetti e dai funghi. Nei grossi tronchi trovano riparo anche roditori, anfibi, rettili e molti uccelli, che scavano nidi, come i picchi, o sfruttano il lavoro di altri, come le civette.
Del legno morto in acqua beneficiano i pesci che vi trovano riparo, numerosi insetti che se ne cibano, molti molluschi che si nutrono delle alghe e dei funghi cresciuti sul tronco. Anche per gli insetti non è per niente facile digerire una delle componenti principali del legno, la lignina, un pesante e complesso polimero organico che fornisce rigidità alle pareti cellulari e permette la connessione tra le diverse cellule del legno, creando un materiale molto resistente. Allora ricorrono all’aiuto dei funghi che agiscono da pionieri e iniziano la demolizione.
Poi entrano in azione i coleotteri, capaci di introdursi nel legno denso dove attivano le loro mascelle chitinizzate e il loro potente
sistema digestivo. Tutto il processo che porta alla marcescenza dura dai dieci ai venticinque anni ed è condizionato dalla temperatura e dall’umidità. Dunque il legno morto rappresenta un’insostituibile fonte di biodiversità, che contribuisce ad aumentare la complessità e con essa la stabilità degli ecosistemi forestali. La più rilevante componente faunistica legata al legno morto è costituita dagli insetti, e fra questi i più importanti hanno assunto negli ultimi anni il ruolo di specie bandiera (una specie animale o vegetale che viene scelta dalla comunità scientifica per comunicare al grande pubblico i problemi della natura): il cervo volante (Lucanus cervus), lo scarabeo eremita (Osmoderma eremita), la rosalia alpina, il cerambicide della quercia (Cerambyx cerdo) e il morimo scabroso (Morimus asper/funereus).
Attorno a questi insetti sono sorte molte iniziative, sostenute anche dall’Unione Europea, tra le quali un ampio monitoraggio che per la prima volta vede coinvolti moltissimi appassionati di natura, non necessariamente esperti del settore, i quali vengono rapidamente formati dagli enti preposti al riconoscimento dell’insetto all’utilizzo di una app con la foto dell’animale e la sua localizzazione. Per chi invia questi dati al sito del ministero è previsto un premio. In questo modo il numero dei ricercatori è in costante aumento e così pure i dati raccolti. Ma non basta: per la prima volta un cane, un golden retriver di nome Teseo, è stato addestrato a riconoscere con l’olfatto la presenza dello scarabeo eremita. È un cane molecolare, cioè addestrato a riconoscere uno o più specifici odori, ossia molecole volatili, e a segnalarne la presenza al conduttore, sedendosi o abbaiando. I più famosi cani molecolari aiutano le indagini di polizia fiutando tracce di sangue o altre sostanze. Teseo invece
fiuta coleotteri e li individua senza disturbarli, anche quando sono rintanati in profonde cavità o cunicoli nel legno. Fantastico!
Daniele Zovi