Accordo di Parigi: una firma che fa fine e non impegna
Il mese scorso si è registrato il marzo più caldo che mai, dopo 11 mesi consecutivi di temperature record. Una delle peggiori siccità ha colpito l’Africa orientale e meridionale, il 93% della Grande Barriera Corallina è stato colpito dallo sbiancamento dei coralli e la calotta glaciale della Groenlandia sta affrontando una stagione anticipata di fusione dei ghiacci, con temperature record che hanno sfiorato i 20°C sopra la media.
Sono solo alcuni dei più recenti effetti del cambiamento climatico e si tratta del triste panorama contemporaneo in cui si è appena tenuta presso la sede delle Nazioni Unite di New York – in occasione della Giornata della Terra 2016 – la cerimonia della firma dell’accordo di Parigi, che ruota intorno all’impegno collettivo di mantenere il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era pre-industriale.
Definito a dicembre, prima di entrare in vigore servono le ratifiche dei differenti Paesi. Per la prima volta nella storia dell’ONU oltre 175 Stati firmano un accordo internazionale il primo giorno in cui viene aperto alla firma. Gli Alti rappresentanti dei Governi, inoltre, hanno parlato con spirito positivo sottolineando l’impegno ad agire rapidamente per rendere l’Accordo di Parigi una realtà, e affermando che la volontà politica non è mai stata così forte come ora.
Sembrerebbe una partenza promettente. Ma se, al di là delle dichiarazioni in pompa magna, due sono i dettagli da sottolineare. Il Primo, di questi Paesi firmatari solo 15 – per lo più gli stati insulari maggiormente minacciati dall’innalzamento del livello degli oceani – hanno già ratificato il trattato. La maggior parte degli Stati ha, infatti, bisogno di portare il documento firmato a casa e mettere in atto le procedure di ratifica, che nella maggior parte dei casi richiedono una preliminare discussione parlamentare. Inoltre, gli impegni a livello nazionale presentati da gran parte dei Paesi partecipanti alla COP 21, sono insufficienti a raggiungere i target dell’accordo.
Il secondo riguarda l’Unione Europea. Se stringiamo lo zoom sul Vecchio Continente il discorso diventa ben più complicato e fosco. Lontano da essere una vero leader e una efficace trascinatrice, l’UE è impantanata nella ‘distribuzione’ dei target nazionali di riduzione della CO2. Di solito apripista, l’Europa è oggi bloccata in attesa del pacchetto legislativo per il 2030 lanciato prima dell’estate.
Il piano di Bruxelles è quello di presentare insieme sia la proposta di ratifica dell’accordo di Parigi sia gli obiettivi nazionali al 2030 di riduzione di CO2 per i settori non coperti dal mercato europeo delle emissioni (ETS), come agricoltura, trasporti e edilizia. Tuttavia, persino il non brillante Commissario al Clima Miguel Arias Canete è consapevole che il processo per assicurarsi il sostegno di 28 Governi diversi e 29 Parlamenti, inclusa l’Eurocamera, “prenderà del tempo”, ha detto alla cerimonia di New York.
Anche dentro i palazzi UE la voce non è unanime. “Dopo Parigi tutto il mondo si sta muovendo tranne l’UE”, spiega Bas Eickhout, vicepresidente del gruppo dei Verdi all’Europarlamento. Usa e Cina hanno già annunciato di voler ratificare l’accordo quest’anno, probabilmente intorno a settembre, in concomitanza con l’Assemblea Generale dell’Onu. “Questi due Paesi insieme contano circa il 40% delle emissioni, che con l’India diventano il 45%” afferma Eickhout, secondo cui “se si dovesse aggiungere anche il Giappone, dietro pressione degli Usa, l’entrata in vigore nel 2016 o 2017 diventa probabile, senza l’UE“. Siccome per entrare in vigore, l’intesa salva-clima ha bisogno della ratifica di 55 Paesi che coprano almeno il 55% delle emissioni globali, uno scenario verosimile è che questo possa avvenire senza il blocco dei 28 Paesi. Che, oltre a perdere credibilità come leader, potrebbe rimanere tagliato fuori dalle prime decisioni chiave su regole e procedure. Di tutt’altro avviso, invece, Giovanni La Via, Presidente della commissione Ambiente dell’Europarlamento. “Siamo 28 Paesi, è normale che il processo di ratifica sia più complesso e questa non è una gara, quello che conta è l’obiettivo, che si consegue insieme”, ha affermato.
Da notare, inoltre, che la battaglia a livello diplomatico non si è esaurita con Parigi. Perché dall’accordo è rimasta fuori la riduzione delle emissioni nei settori dei trasporti aerei e marittimi. Un dibattito che deve essere assolutamente affrontato a livello mondiale ma ostacolato dall’Organizzazione Internazionale Marittima e da quella dell’Aviazione Civile (Imo e Icao), ancora lontane dal varare una misura globale taglia-CO2. Ma anche su questo fronte pare che l’UE non stia al passo. Sempre secondo Eickhout l’Europa è concentrata su altri dossier, e non sta facendo grandi pressioni.
In questo contesto di paralisi l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante in seno al G7, di cui ha la presidenza l’anno prossimo. Ma il disinteresse del presidente del consiglio per i temi ambientali è emerso con tutta evidenza in occasione del referendum sulle trivelle.
L’Accordo di Parigi resterà ora aperto per raccogliere altre firme per un anno, fino al 21 aprile 2017. Ma il presidente francese Hollande, come Paese ospite della COP21, ha detto chiaramente che si deve puntare all’entrata in vigore entro la fine dell’anno. I negoziatori sulla Convenzione ONU sul Clima, intanto, si incontreranno il mese prossimo a Bonn, in Germania, per iniziare a porre le basi per rendere operativo l’accordo.
Beatrice Credi