Accordo di Parigi: UE ratifica. Ma cosa succede se un Parlamento nazionale non firma?
Dopo Cina e Stati Uniti anche l’Unione Europea ha ratificato l’accordo sul clima raggiunto alla COP21 di Parigi, con l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centrigradi rispetto ai livelli pre-industriali.
Fautrice dell’accordo sin dai primi incontri preparatori, l’UE era rimasta indietro. Il ritardo era stato richiamato dalla Commissione Ambiente del Parlamento Europeo che, con una maggioranza schiacciante (47 voti a favore e un solo contrario), aveva votato una relazione invitando il Consiglio ad adottare tutte le misure necessarie per mettere a punto la posizione di ratifica dell’Accordo, insieme con i processi di ratifica nazionali nei singoli Stati Membri.
Dopo il via libera ottenuto dai Ministri dell’Ambiente dei 28 paesi membri UE, anche l’Europarlamento, riunito in sessione plenaria a Strasburgo il 4 ottobre, è quindi giunto (un po’all’ultimo minuto) all’attesa autorizzazione della ratifica. Mentre l’esecutivo comunitario ha già presentato la sua proposta legislativa per un impegno UE a ridurre le emissioni nell’Unione di almeno il 40% entro il 2030.
Ma è qui che scatta il cortocircuito. L’ambiente in generale (e quindi anche la politica climatica) è una competenza condivisa tra l’Unione Europea e gli Stati Membri. Secondo quanto scritto nei trattati, quindi, a differenza delle aree di competenza esclusiva (le azioni legate al commercio e al mercato unico), in questo caso per far valere le regole non basta l’ok comune delle istituzioni Europee, serve anche il passaggio autorizzativo nei singoli parlamenti nazionali. In sintesi, non si tratta cioè di materie in cui l’UE possa imporre direttamente ai Paesi obblighi e oneri.
A lungo si è discusso circa le modalità di ratifica da parte dell’UE. Non era chiaro, infatti, se si sarebbero dovute attendere le ratifiche nazionali da parte di tutti gli Stati Membri prima di depositare lo strumento di ratifica comunitario. L’UE, in sede negoziale, agisce infatti come un unico blocco ed è considerata come “un solo Paese”. Da un punto di vista prettamente tecnico, infatti, pare che non fosse necessaria una preventiva approvazione da parte dei 28 affinché l’UE potesse ratificare. Per altro, anche ragioni di opportunità politica hanno suggerito come strategia migliore quella di deliberare una ratifica dell’UE prima ancora che tutti i singoli Stati Membri ultimassero, a livello nazionale, le proprie procedure di ratifica, per mandare un chiaro segnale di supporto al trattato.
Però, cosa succederebbe adesso se un’assemblea nazionale rifiutasse di ratificare l’accordo? “Non mi aspetto che succeda, ma se dovesse accadere sapremo farvi fronte”, ha liquidato brevemente il Commissario al clima Miguel Cañete. Nei fatti, si aprirebbe uno scenario piuttosto inedito ma del tutto possibile. Si prenda, per esempio, il caso della Polonia (la più avversa all’accordo, insieme all’Italia!). La repubblica dell’est Europa ricava il 90% della sua energia elettrica dal carbone e considera gli accordi di Parigi come una minaccia al proprio sviluppo economico…
Allo stato attuale le ratifiche comunitarie sono solo 7: Slovacchia, Francia, Ungheria, Germania, Malta, Austria e Portogallo che portano a 74 i Paesi che hanno ratificato l’Accordo di Parigi. Ben oltre i 55 necessari, per un totale di emissioni del 58,82%, oltre il 55% richiesto affinché il trattato entri ufficialmente in vigore. A conti fatti, a meno di un anno dalla COP21 il trattato diventa dunque già operativo. Ma la tortuosa procedura giuridica di approvazione si riflette anche nel conteggio delle emissioni. Nel contatore delle emissioni per l’entrata in vigore dell’accordo, infatti, sono state considerate solo le emissioni dei 7 e non quelle dell’intera Unione. La soglia è stata quindi ugualmente superata grazie alla concomitante ratifica da parte del Canada.
Alla prossima conferenza sul clima prevista in Marocco, a Marrakech, dal 7 al 18 novembre, potranno però partecipare solo i Paesi che concluderanno il percorso approvativo in tempo utile. Chi rischia di stare a guardare, come mero “osservatore”, è quindi l’Italia, nonostante le pressioni esercitate sul Governo, nelle ultime settimane, da numerose associazioni ambientaliste e la petizione pro-firma lanciata dall’ex Ministro Alfonso Pecoraro Scanio su Change.org. Il Disegno di legge di ratifica, tardivamente approvato dal Consiglio dei Ministri del 4 ottobre, non ha, infatti, ancora iniziato l’iter alle Camere. Il WWF si appella ai Presidenti delle due Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini, perché il provvedimento abbia una corsia davvero veloce, consentendo all’Italia di sedere a pieno titolo alla riunione delle parti contraenti dell’accordo in cui si decidono le questioni inerenti la procedura e l’attuazione del trattato.
Secondo alcuni osservatori questi ritardi non sarebbero casuali, ma rifletterebbero la posizione ambigua assunta dall’Italia durante le negoziazioni. L’Italia, infatti, non si è mai schierata in maniera palesemente contraria, ma ha cercato, in più occasioni, di ritardare la ratifica per ottenere target nazionali blandi in cambio del proprio sì. Altri sottolineano, al contrario, che non è possibile ignorare il fatto che le proposte della Commissione Europea per la suddivisione, tra gli Stati Membri, dell’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra al 2030 (“Effort Sharing Regulation” e “LULUCF Regulation”), sembrino effettivamente penalizzare l’Italia. Secondo l’attuale proposta, per esempio, l’Italia risulterebbe l’unico Paese con PIL al di sotto della media UE ad avere assegnato un target superiore della media UE, pur avendo già raggiunto l’obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2020 a differenza di altri Paesi, come la Germania, che, sebbene ancora lontani dal raggiungimento dei loro obiettivi di riduzione, sono avvantaggiati dalla proposta della Commissione. Polemiche che riportano, ancora una volta, ad una “piccola” dimensione, priva di lungimiranza e di reale convinzione politica nel cambiare modello di sviluppo.
Beatrice Credi