A spasso tra gli “amabili resti” torinesi: Lingotto, MOI, PAV
Proseguono, con il cammino nella Circoscrizione IX di Torino, tra il Lingotto, il Mercato Ortofrutticolo e il Parco Arte Vivente, le “divagazioni cantautoriali di mobilità elementare” di Orlando Manfredi, in arte Duemanosinistra, a spasso per le città italiane e straniere alla ricerca della densità di significato – umano e ambientale – dei luoghi che ci circondano.
La soglia che affaccia sul nostro desiderio di purezza - quella soglia di valore, in cui la nostra capacità di conferire “senso” non si è ancora corrotta – contempla spesso un panorama ricorrente: un posto dove Arte & Natura si diano reciproca dimora, dove non sia più distinguibile l’azione dalla simbolizzazione, l’ordine materiale da quello spirituale, il riscontro dal valore.
Poi scopro che questo posto esiste già a Torino, esiste davvero. Si chiama PAV– Parco Arte Vivente. Ma potremmo anche intenderlo come luogo d’Arte del Vivente, senza tradirne il senso. Sotto l’egida dell’artista “totale” Piero Gilardi, il PAV, progettato dal bio-architetto Alessandro Fassi, riesce a porsi come modello alternativo a tanti Centri d’Arte Contemporanea, isolati dal mondo, dove si rinchiudono cultori un po’ snob o affaristi raffinati. Il PAV mette al centro della propria indagine la relazione tra Individuo e Ambiente (hanno istituzionalizzato in un luogo fisico, e ben prima di me, ciò che cerco di fare io, in movimento), riproponendo un nuovo valore umano, una fertile proposta di Comunità. Felicemente contemporanea e talmente attuale la concezione, da coinvolgere sensibilità non use ai vernissage e gli ambienti dell’arte sperimentale: curiosi, gruppi, famiglie, cittadini responsabili.
Era da tempo che avevo messo tra i desiderata delle divagazioni anche una visita al PAV. Fino a quando, un bel giorno, mi capita di essere contattato – per tramite dei gentilissimi ragazzi dello staff organizzativo – da lui, il Parco Vivente, coi suoi organici murmuri, il suo frollare d’elitre, la sua pancia fiorita – e di essere coinvolto in una-tre-giorni dedicata alla mobilità sostenibile. Decidiamo che condurrò una camminata o divagazione, aperta al pubblico, a zonzo per la Circoscrizione IX di Torino (quartieri Nizza Millefonti, Lingotto, borgo Filadelfia), con arrivo e visita al PAV, e a seguire performance finale del cantautore pellegrino.
Situata nel quadrante sud-est della città, la zona delimitata dalla Circoscrizione IX, ricorda le stratificazioni minerali, tanto procede a sbalzi il tessuto urbano, con la Storia violentemente oggettivata in simboli architettonici, coi suoi livelli disomogenei, i suoi contrasti e le miracolose cerniere, a tenere insieme questo guazzabuglio metropolitano.
Difficile trovare un luogo di partenza rintracciabile dai camminatori, che sia anche gradevole. A Est del Lingotto, a cinque minuti dalla fermata della metropolitana ma già abbastanza lontani dalla congestione di via Nizza, in un canto tra via Cherasco e via Tepice, si snodano a gomito Il Barrito e i Bagni Municipali. Perfetto trovarsi qui: prima una birra al Barrito – il luogo d’incontro e produzione culturale, voluto da Bobo Boggio dei Fratelli di Soledad, storica band di combat rock torinese – e poi tutti a evacuare ai Bagni Pubblici di via Cherasco! Eh sì, ma i bagni, come venivano intesi una volta, conservano il significato di lavacri, sul modello dell’hammam: alla turca, ma senza “turche”. Insomma, niente cessi. Qui ci si può solo lavare. Prezzi modici.
Sprofondiamo nel vaporoso tepore dei Bagni – in carico alla Cooperativa Sociale il Lancillotto – guidati da un donnone solare, di origine mediorientale, che amministra orari di ingresso, pulizie, cassa e accoglienza. Tutto pulito e confortevole. Dodici cabine doccia per gli uomini e tredici cabine doccia per donne, compresi due box per disabili. Utenti, molti – pare. Nei corridoi trai i vani doccia e i vapori, si insinuano figure, profili sociali, tessere da identikit, a creare un piccolo spaccato, un fermoposta umano. Diversi senzatetto vengono qui a usare le docce. Ma non solo loro. Famiglie che tirano la cinghia fanno consumo domestico di gas e metano per i bagni dei figli, mentre risparmiano sulle comodità degli adulti e vengono qui a lavarsi, a un euro e settanta.
A poche centinaia di metri dai Bagni, in un rovescio ideologico della solidarietà, a un passo da Eataly e dall’8 Gallery del Lingotto, campeggia, su una palazzina dismessa dal Comune, lo striscione Casa Diritto di Civiltà. Trattasi di una casa occupata da una decina di senza tetto, aiutati da Soccorso Tricolore, gruppo vicino a Fratelli d’Italia. Alcuni degli occupanti non hanno trovato posto nei dormitori, e hanno dormito in strada, in via Sacchi. Io abito lì. Devo anche averli visti. E se posso considerare questo un parziale lieto fine, da un lato, di certo continuo a sentire un piccolo pungolo di vergogna, dall’altro.
In queste zone di storiche e recenti trasformazioni, è palpabile il disagio, come un umore grave che si attacca alla strada, dove si trascina una polveriera sociale pronta ad esplodere. Eppure, in mezzo a un’aria pungente e un po’ allarmata, scopro la bellezza di questo coacervo cittadino. Davanti a noi – scalatori di spianate di cemento – si allunga il molosso del Lingotto. Antica zona di cascine che precedevano la porta sud della città, diviene, negli anni Venti del secolo scorso, mentre in città nasce il Gruppo Futurista di Torino, area destinata allo stabilimento FIAT. Fu un concepimento architettonico, figlio dell’unione, tremenda e bellissima, di suprematismo russo, razionalismo e taylorismo produttivo. Eppure è dopo lo smantellamento dello stabilimento, negli anni ’80, che si pone la prima vera pietra della Rinascita di Torino, con la riqualificazione simultanea a monumento di archeologia industriale e centro multifunzionale ad uso fieristico e commerciale, ad opera di Renzo Piano, conclusasi negli anni Novanta.
Scivoliamo nelle zone di decompressione del Lingotto, dietro l’ex stabilimento. Sul fianco Ovest del padiglione si stendono lunghi giardini, perfettamente coerenti con il minimalismo scabro delle superfici intorno. L’occhio e la mente riposano in una geometria verde, fatta di fughe di filari alberati, siepi e ombre che proiettano i volumi nello spazio. Abituato da tempo a camminare da solo, in un ostinato pungolo dei sensi e della curiosità, ci metto un po’ ad apprezzare la divagazione di gruppo: si abbassa la soglia del silenzio, ma d’altra parte aumenta la possibilità d’iniziativa. Ognuno può essere sollecitato dal circostante e sollecitare, a sua volta, i compagni di passeggiata. E’ un’ebbrezza strana essere parte e insieme guida di un piccolo gruppo solidale.
Dalla calma euclidea dei giardini del Lingotto, stacca il bastione che conduce alla Passerella Olimpica, che scavalca i binari della ferrata, collegando i due mondi prima irriducibili di Lingotto e di borgata Filadelfia. Ora questo braccio sospeso avvicina i mondi del lusso commerciale, delle convention, con quello dei graffiti delle nuove mappe urbane e giovanili, dei quartieri e delle case di nuova edilizia popolare di là dalla ferrovia. Anche qui, appesi ad un filo tirato in cielo, si incrociano silhouette vestite dalle multi offerte dell’8 Gallery, professionisti che sorvolano la città, famigliole a passeggio, piccole bande di ragazzi e ragazze, pieni di invenzioni fatte col niente che li circonda.
Sotto questa striscia panoramica, palpita la bellezza di un’area Frankenstein, teatro di ardite e successive trasformazioni urbane. In lontananza nella zona del ex Fiat-Avio, l’Oval Lingotto, conosciuto anche come Oval Olympic Arena, costruita per ospitare le gare di pattinaggio dei XX Giochi Olimpici Invernali del 2006. Dietro di noi c’è un’incantevole e mastodontica goccia di vetro,che non desterebbe stupore in un film di Miyazaki. E’ la “Bolla” di Renzo Piano, in cui è custodita la collezione della Pinacoteca Agnelli. Davanti a noi, la bellezza raggelante del MOI, Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso. Gli ex mercati generali, punto di riferimento, divenuti oggi un canone di epos del lavoro (vedere in proposito le foto della torinese Bruna Biamino, immortalanti l’ultimo giorno di vita degli ex Mercati Generali). I padiglioni di cemento armato e la torretta littoria creano un paesaggio contemporaneamente operaio e lunare: sembra di stare in un incubo privato, in un teatrino di Fritz Lang, o una perversione edilizia di De Chirico. Eppure la perversione è magnifica.
Qui ci sono ormai nuove vestigia: dopo quelle del MOI, realizzato negli anni Trenta del secolo scorso, le attuali vestigia del Villaggio Olimpico, i cui edifici, che dalla passerella del Lingotto compongono un piacevole mosaico di colori pastello, cadono a pezzi da vicino. Molti di questi, fin dalla progettazione, sono stati vincolati a locazione popolare. Ma qualcuno deve aver preso un po’ al ribasso la vocazione abitativa: non si vede intonaco intatto, pur essendo passato poco più di un lustro dalla conclusione dei lavori. Anche la sede dell’Arpa – l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente - non se la passa troppo bene. Tutto risente di un’aria d’ultima spiaggia metropolitana di degrado e visioni, sogni e abbandoni.
Spunta anche l’Ostello della Gioventù, quello che una volta se ne stava sul cucuzzolo delle colline. Se decidessi domani di trasferirmi in ostello, l’ex Villaggio sarebbe un posto fantastico per me: cittadella quasi irreale, di provocazioni estetiche e di resistenze abitative, e di tessuti civili ancora attoniti da tutto ‘sto casino. Ma un giovane turista, o studente, o viaggiatore di passaggio – tolta l’indubbia comodità di avere il Lingotto ad un tiro di schioppo – come percepirebbe queste ferite urbane, questi margini, questi vuoti?
Incontro una coppia di residenti, piuttosto sorpresi dal vedermi prendere foto. “Che fai? Ti piace fotografare le schifezze?” mi chiede la donna. Il marito mi “spiega” con gli occhi iniettati di sangue che lui se ne intende di costruzioni, essendo operaio edìle. “A fare un lavoro di merda ci metti lo stesso tempo che a fare un bel lavoro. Quello che cambia è la qualità dei materiali. E qui qualcuno ha voluto risparmiare, per mettersi in tasca una bella pensione, oppure c’ha dovuto pagare la camorra”. Obiezioni non se ne sentono. Tutt’intorno, le palazzine occupate da circa 300 rifugiati politici (molti altri senza una situazione giuridica chiara): il Villaggio Olimpico non è più un nome familiare. Molto più frequente sentir parlare di “Villaggio dei Profughi”.
Riprendiamo la via Giordano Bruno. Cinto da muri e terrapieni, si nasconde il Parco dell’Arte Vivente. Per ironia del destino il ciclo dell’organico e le sue unioni spurie con l’inorganico continuano anche qui al PAV, per “merito” dei corvi che dagli impianti dell’Amiat sottraggono lacerti di rifiuti e vengono a depositarli nel Parco del Vivente, dove tutto può riassumere vita, in perfetta coerenza coi presupposti estetici ed etici del luogo. All’interno del Parco, intorno a un’opera interattiva di Gilardi, chiamata Bioma, si snodano molteplici variazioni di arte vivente o di natura trasfigurata. Troviamo orti urbani a forma di Arca del Vivente, installazioni-forno, per la panificazione, giardini-mandala, che si snodano e compongono, secondo il principio orientale della circolarità che salda principio e termine. Tra gli estremi del prato spellato di periferia, da una parte, e del parcheggio o del centro commerciale, dall’altra, per soddisfare mandati di promozione sociale, c’è – unico in Italia – il modello del PAV, dove Arte, Natura e Relazione giocano a corse nell’erba.
Orlando Manfredi
Playlist/Bibliografia
Fratelli di Soledad, ”Gridalo Forte”
Robert Wyatt, “Te recuerdo Amanda”
Hayao Miyazaki, “La città incantata”
Bruna Biamino, “Il Moi com’era”
Parco Arte Vivente, “Internaturalità”, dall’8 Maggio al 29 Settembre