Stato del Mondo 2010. Intervista a Gianfranco Bologna
E’stata presentata ieri, al Centro Congressi di Roma, l’edizione italiana dello “State of the World 2010” (Edizioni Ambiente, 384 pp., 24 euro), curata da Gianfranco Bologna, Direttore Scientifico di WWF Italia. L’annuario del Worldwatch Institute, uno dei più autorevoli centri studi interdisciplinari sulle tematiche ambientali, presieduto da Christopher Flavin, porta quest’anno il significativo sottotitolo “Trasformare la cultura del consumo“, che ne riassume sostanzialmente l’impostazione.
Il rapporto è infatti dedicato alle azioni intraprese, nei diversi ambiti della società umana, per avviare quella trasformazione culturale, politica e produttiva indispensabile a passare dall’attuale dimensione del consumismo - principale responsabile, secondo i 50 autori, del degrado ambientale - a quella, tanto invocata, della sostenibilità. Una vera e propria rassegna dei cambiamenti in corso nell’economia, nel mondo delle imprese, nel marketing, nella politica, nell’educazione e nell’ istruzione e addirittura nel mondo delle fedi religiose - per rendere la complessità e l’articolazione che, necessariamente, la sfida ambientale deve assumere per poter generare risultati concreti. Si tratta infatti di “qualcosa di più fondamentale rispetto all’adozione di nuove tecnologie o di nuove politiche governative“, precisa Flavin nell’introduzione.
Basti pensare che negli ultimi cinque anni, nonostante la crisi, i consumi sono saliti del 28%, dai 23,9 mila miliardi di dollari spesi nel 1996, e di sei volte dai 4,9 mila miliardi di dollari spesi nel 1960, a fronte di aumento demografico solamente del 2,2%. All’aumento dei consumi corrisponde una maggiore estrazione dal sottosuolo di combustibili fossili, minerali e metalli, più alberi tagliati e più terreni coltivati (spesso per alimentare il bestiame). Tra il 1950 e il 2005, la produzione di metalli è sestuplicata, il consumo di petrolio è aumentato di otto volte e quello di gas naturale di quattordici. Complessivamente, ora si estraggono 60 miliardi di tonnellate di risorse l’anno: circa il 50% in più rispetto a 30 anni fa. Il che significa che oggi un europeo medio utilizza quotidianamente 43 chilogrammi di risorse e un americano 88. A livello globale, ogni giorno l’umanità preleva dalla Terra risorse con le quali si potrebbero costruire 112 Empire State Building, il famoso grande grattacielo di New York alto 381 metri e dal peso di 275.000 tonnellate.
D) Dott. Bologna, è pensabile correggere questo modello di sviluppo intervenendo a livello di normative e regolamenti o serve qualcosa di più?
R) Bisogna intanto partire da una considerazione: è letteralmente impossibile fornire uno stile di vita occidentale ai 6,8 miliardi di esseri umani che abitano il nostro pianeta. E tanto meno quando gli abitanti, secondo le previsioni del World Population Prospect dell’ONU, saranno 9 miliardi nel 2050. Chiunque studi la dinamica dei sistemi naturali sa benissimo che il prelievo che gli esseri umani fanno di risorse sta inficiando pericolosamente sia la capacità rigeneretiva di questi sistemi, sia quella ricettiva – ovvero la capacità di metabolizzare i prodotti di scarto. Questa situazione è ben chiara alla comunità scientifica e indubbiamente la politica ha un ruolo di intervento fondamentale. Ma è impossibile trovare soluzione a questi problemi in un singolo modo, bisogna elaborare un mix di soluzioni. Non si può pensare che la soluzione sia unicamente la regola, la norma, la legge, che interviene in campi specifici. Come nemmeno si può pensare che tutto venga “dal basso”, dal cittadino, o dalle singole imprese – con interventi sul packaging o sui sistemi di unificazione di prodotto. Serve appunto un mix di tutto ciò.
D) Non è però difficile parlare di riduzione dei consumi in tempi di crisi economica?
R) Secondo molti economisti, anche di impostazione classica, questa crisi non è congiunturale, ma strutturale. Va dunque rivisto l’intero modello su sui si basano le nostre economie. Il professor Giovannini, presidente dell’Istat, che abbiamo voluto presente alla conferenza di ieri, è uno dei protagonisti del grande dibattito mondiale sui nuovi indicatori di benessere delle società, che il presidente francese Sarkozy ha commissionato di studiare a diversi economisti, molti dei quali - si badi bene – di formazione neoclassica e non economisti “ecologici”. Questo rapporto, finito sul tavolo del G20 di Pittsburgh, sta diventando oggetto di applicazione e di dibattito a livello mondiale. C’è, anche in questo campo, un movimento trasversale che va ben oltre gli attivisti di una volta. Il PIL, il prodotto interno lordo, che ancora viene utilizzato in tutti i dibatti politici (anche per formulare accuse reciproche di averlo fatto calare), è ormai inadeguato. Persino la Commissione Europea, con il contributo del WWF, ha voluto stimolare lo studio di questi nuovi indicatori in una conferenza, nel 2007, che ha anche dato vita ad un sito, Beyond Gdp. L’ultimo Forum di Davos, che è sempre stato il centro di riflessione dell’economia e della finanza mondiale, era tutto dedicato al tema dello sviluppo sostenibile. Solo pochi anni fa sarebbe stata un’eresia portare questi temi al tavolo di top manager e banchieri. Quello che si sta muovendo è di tutto rispetto e va al di là di un’ideologia politica. Non è un problema di destra o sinistra, è un problema di vecchio o nuovo! In Italia, purtroppo, domina ancora una cultura vecchia, che appartiene tanto alla sinistra quanto alla destra. Pensi agli sviluppi, ad esempio, in America Latina: un paese come l’Ecuador ha inserito il “diritto alla natura” nella costituzione, come elemento fondante e fondamentale dell’essere umano. Siamo ben oltre l’attivismo dei gruppi ambientalisti, si tratta di nuove formule e questo va sottolineato con chiarezza. La vera rivoluzione di oggi è il buon senso. Esiste un programma internazionale che si chiama The Economics of Ecosystems and Biodiversity, il cui rapporto finale verrà presentato ad ottobre, che è straordinario e riunisce alcuni dei più grandi studiosi di economia delle risorse e dei sistemi naturali, che stanno mettendo a punto dei sistemi di valutazione complessiva del valore degli ecosistemi e della biodiversità che saranno estremamanete significativi per le economie di tutti i paesi. E questo significherà un’applicazione concreta, anche con delle proposte operative a partire già dal 2010.
D) Crede che il messaggio della riduzione dei consumi sia ancora un tabù per la politica ?
R) Nessuno sta parlando apertamente di questo problema. Ci sono tutta una serie di discorsi, che definirei collaterali, che stanno andando a comporre un patchwork di suggerimenti che sicuramente andrà nella direzione della riduzione dei consumi. I documenti ufficiali tuttavia contengono ancora la parola magica “green growth” (o “sustainable growth”), ma è il vecchio discorso di intenderci sul significato di crescita e sviluppo: “crescita” è qualcosa che accresce dal punto di vista quantitativo e materiale, “sviluppo” indica invece una crescita di tipo qualitativo. Oggi noi continuiamo a giocare con questi equivoci perchè c’è ancora una grossa difficoltà ad accettare il concetto di “semplice” avanzamento in qualità – nonostante tutti se ne riempiano la bocca. Se crescita verde significa un’evoluzione di tutto il comparto della sostenibilità e dell’uso delle risorse naturali certamente andiamo in una direzione positiva, ma se vuol solamente dire una crescita economica tradizionale punteggiata di verde allora è inutile averla perchè è destianta a durare lo spazio di un mattino. Nella concezione scientifica della sostenibilità – che ha per oggetto le interrelazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali e quindi l’analisi comparata di questi flussi metabolici – l’indicatore è la quota pro-capite: chi sta sopra scende e chi sta sotto sale. Quindi, inevitabilmente, il concetto di sostenibilità contiene in sè che in un paese industrializzato ad alto consumo pro-capite di risorse (come gli Stati Uniti o l’Italia) noi dobbiamo agire in una dimensione pro-capite di decrescita. Non c’è bisogno di farne un Movimento, il concetto di decrescita è insito in quello di sostenibilità. La sostenibilità può avere luogo solo nella misura in cui noi diventiamo sostenibili rispetto alla capacità di carico degli ecosistemi che ci sopportano. Se siamo andati oltre, non c’è altra via: dobbiamo “scendere”. Living Within Limits, vivere entro i limiti, questo, per citare Garrett Hardin, è il concetto da tenere a mente.
Andrea Gandiglio
Sull’importanza economica, per le imprese, di conciliare il proprio sviluppo con la tutela degli ecosistemi, si veda anche: Stefano Pogutz e Monika Winn, “Un Mea culpa per il degrado degli ecosistemi“, Greenews.info, 30 marzo 2010