Privati dell’acqua? Tra bene comune e mercato
Privato: perché diverso dalla cosa pubblica o statale; Privato: perché, involontariamente, sprovvisto di.
“Privati dell’acqua? Tra bene comune e mercato” (Edizioni Il Mulino, pp.252, € 16.00), il libro scritto da Antonio Massarutto, professore di Politica Economica ed Economia pubblica all’Università di Udine e direttore di ricerca allo IEFE Bocconi, gioca proprio sul significato etimologico di questa parola per cercare di raccontare un sistema, quello dell’acqua, arretrato e vecchio, molto lontano dal traguardo qualitativo imposto dalle direttive europee.
Il testo nasce con la volontà di delineare un quadro divulgativo della situazione, ma, essendo scritto da un economista, il taglio è quello molto pragmatico di una persona abituata a fare i conti della spesa.
Prezzi, proprietà, riforme: “Al di là delle esagerazioni, molti indicatori concordano nel fornire un’immagine poco lusinghiera. Il nostro sistema idrico è vetusto, manca di pezzi importanti, fornisce complessivamente un servizio inferiore rispetto alle aspettative di un grande paese moderno, evoluto e benestante quale l’Italia si vanta di essere”.
L’analisi della situazione italiana di Massarutto è precisa e impietosa, estranea alla faziosità politica e accompagnata da esempi europei, della Francia, della Germania, della Spagna, che dimostrano come un’alternativa meno conflittuale esiste. Ma prima di entrare nei dettagli l’autore sostiene che “è opportuno far parlare i dati” e ricostruire brevemente “com’è che siamo arrivati fin qui”. Divisa per fasi, la storia dell’acqua nello Stivale racconta di una politica frammentata che, soprattutto a livello locale, intorno alla gestione idrica ha costruito una microeconomia. Così è iniziato tutto, là dove una centralizzazione avrebbe potuto, forse, porre rimendio.
Ma cosa scegliere dunque: pubblico o privato? È il grande dilemma, ma non è certo nuovo. Già in epoca romana se ne discuteva, quando il censor (il Ministro dei Lavori pubblici dell’Impero) realizzava le opere e ne curava la manutenzione; il quaestor (il Ministro delle Finanze) reperiva invece le risorse; la costruzione era appaltata a imprenditori privati e la gestione dell’impianto agli edili curuli. Ovviamente va considerato che, a quei tempi, l’acqua non arrivava fin dentro le case e le fognature raccoglievano l’acqua piovana a cielo aperto, ma il quesito non aveva forma troppo diversa da quello attuale.
“Affermare l’idea che l’acqua è pubblica non vuol dire che debba essere gestita da enti pubblici, né erogata a spese della fiscalità”, chiarisce Massarutto. Per gestire un’azienda o un servizio è richiesto un sistema d’impresa – abbastanza distante dal concetto di pubblico e statale – che una volta reso autonoma dal potere politico, persegue il proprio obiettivo aziendale a prescindere dalla natura e dal colore dell’azionista di riferimento. Svolge il suo lavoro al meglio, insomma. “Il ruolo pubblico, che in questo settore non può evidentemente mancare, può essere assolto meglio se si concentra sulla funzione di regolazione, invece che sulla gestione diretta”.
Una posizione non scontata e impegnativa, che farà sussultare quei lettori che, nel titolo, avevano letto una provocazione a favore dell’acqua pubblica, in quanto bene necessariamente pubblico.
“Guai – è il messaggio finale del libro – se la politica si lascerà dominare e irretire dal malcontento popolare e non capirà che la sua funzione è, al contrario, quella di rielaborarlo, ripulirlo delle contraddizioni e delle false soluzioni demagogiche, e trasformarlo in messaggio positivo”.
Alfonsa Sabatino