Le case Walser: esempio di architettura sostenibile
Ieri La Stampa ha rilanciato, con un articolo a doppia pagina ricco di dati allarmanti, l’appello ai lettori per salvare il Belpaese dall’abusivismo e dai crimini ambientali denunciati nel libro La Colata - dal significativo sottotiolo: Il Partito del Cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro.
Il problema purtroppo non è nuovo ed è noto a chiunque abbia un po’di amore per la natura e sia minimamente dotato di gusto estetico. Da Nord a Sud, l’Italia – un paese che potrebbe vivere di solo turismo, se solo fosse in grado di comprendere le proprie potenzialità - é devastata da costruzioni che ne deturpano il paesaggio e che non mantengono più alcun legame con il territorio. Villette e condomini orrendamente uguali, sia in riva al mare che in montagna. Mal pensati e spesso mal costruiti, senza alcun rispetto per l’ambiente circostante né per il comfort di chi li dovrà abitare.
Il danno non si è fermato ai fatidici anni ’70, ma continua. Secondo quanto riporta Giuseppe Salvaggiulo, uno dei giornalisti autori dell’inchiesta, il paese “produce ogni anno 28 mila costruzioni abusive e ricopre di cemento legale, in venti giorni, la quantità di territorio (11 mila ettari) che la Germania consuma in un anno“.
E pensare che non ci sarebbe nulla da inventare. Basterebbe riprendere i modelli (concettuali, prima ancora che architettonici) della tradizione locale adattandoli alle esigenze attuali. ”Abitare un luogo – scriveva Luigi Zanzi, nel bel volume Le case dei Walser sulle Alpi della Fondazione Enrico Monti – è qualcosa di assai diverso che l’insediare in esso una costruzione: l’abitare un luogo comincia con l’aver cura di esso, nel senso di un disegno vitale che sappia far sì che quel luogo stesso diventi la radice della propria cultura, la risorsa prima della propria sopravvivenza, l’occasione creativa per l’invenzione della propria sorte”. ”L’architettura walser (come quella di tante altre genti di montagna) non è un fatto puramente di tecnica costruttiva, ma è principalmente un fatto di tecnica abitativa del proprio territorio“.
Da qui siamo partiti, mentalmente, nella nostra passeggiata tra gli stadel di Gressoney Saint-Jean, in Val d’Aosta, esempio eccezionale di architettura sostenibile ante-litteram, realizzati con travi di larice ad incastro, secondo le esigenze di vita e di lavoro della popolazione, con soli materiali locali e un innato senso di integrazione nel paesaggio.
“Lo stadel sembra uscito dalla terra, come gli alberi dei nostri boschi. Fa corpo con la terra che lo regge; è parte integrante del paesaggio che lo circonda“, scriveva a inizio novecento Jean Jacques Christillin. Ma soprattutto, continuava l’abate, “è la dimora che conviene agli uomini che vi abitano, perfettamente adatta al loro genere di vita, alla lotta che devono sostenere contro una natura ribelle”.
Ovvero: la casa giusta, al posto giusto, nel momento giusto. Un concetto semplice, nella sua perfezione, completamente dimenticato dall’urbanistica moderna e totalmente indifferente all’abusivismo di ogni tempo.
La casa rurale ideata dai walser rispecchia, al contrario, le vicende storiche e sociali dell’insediamento della popolazione in determinate aree alpine (piuttosto che altre), l’appropriazione di un certo territorio e delle sue particolari risorse naturali e l’uso dell’edificio non solo come struttura abitativa, ma anche a servizio dell’attività agricola, dell’allevamento del bestiame, del magazzinaggio di alimenti e altre scorte e come laboratorio di attività artigianali. Il piano terreno, in muratura, conteneva la stalla, spesso coabitata, d’inverno, dalla famiglia, che ne condivideva il tepore con gli animali. Il livello in legno era adibito a fienile e deposito per il grano, con un balcone che cingeva l’edificio sui quattro lati, riparato dalle falde del tetto e perfetto per l’essicazione estiva dei cereali. Il basamento era rialzato dal terreno per mezzo dei “funghi”, i pilastrini che, oltre a migliorare l’isolamento e la ventilazione, difendevano dalle incursioni dei ratti. Come ogni altra casa contadina, ricorda Zanzi, lo stadel “risulta assai più complesso di un’unità abitativa di città (utilizzata per poche ore e quasi solo per mangiare e per dormire): esso è vissuto per l’intera giornata e risponde a molti usi”.
Per questo l’architettura contemporanea dovrebbe far tesoro di una complessità – ormai svelata e analizzata da numerosi studi – che lungi dall’essere ”superata”, è invece ricchissima di spunti tecnologici e di utili indicazioni per le sfide attuali: sostenibilità ambientale, risparmio energetico e comfort abitativo.
Ad ammetterlo sono gli stessi bio-architetti che hanno studiato a fondo questo modello abitativo: “Riscoprire la montagna, per chi si interessa di tecnologie del costruire ambientalmente consapevole, significa percorrere un lungo viaggio nella genesi di una cultura materiale basata sull’individualità dei luoghi, su rapporti geoculturali sottili tra sito e forma, su variazioni tecno-tipologiche sofisticate sostenute da materiali e tecniche costruttive che utilizzano in modo integrale i cicli delle risorse locali“, scrive Gianni Scudo, del Politecnico di Milano, nell’introduzione al ”quaderno” Ambiente e Sistema Edilizio negli Insediamenti Walser di Michela Mirici Cappa. Significa cioé “entrare all’interno di razionalità e di visioni del mondo di tipo ecologico profondamente diverse da quelle che viviamo oggi“.
Fino a non molti anni fa era infatti pensiero comune dei progettisti che i problemi relativi al comfort di un edificio potessero essere risolti in un secondo momento, ricorrendo a sistemi artificiali di controllo ambientale (alimentati quasi sempre con fonti di energia non rinnovabile), nella totale indifferenza verso le caratteristiche climatiche e geografiche del luogo di costruzione.
La lezione dei walser, un tempo isolati nell’inospitale ambiente dell’alta montagna e ben consapevoli del necessario rapporto tra i fattori climatico-ambientali e le caratteristiche architettoniche delle costruzioni è dunque, ancora oggi, non solo estremamente affascinante, ma decisamente attuale.
Andrea Gandiglio